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Anno V - N° 4, settembre/ottobre 2010 Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina edito dal Circolo Cittadino “Athena” - Galatina Anno V - N° 4, settembre/ottobre 2010 - Autoriz. Trib. di Lecce n.931 del 19 giugno 2006 - Distribuzione gratuita www.circolocittadinoathena.com

Anno V - Il fIlo di ARACNE...2012/02/04  · Anche durante questo periodo il Valentino continuò nel-l’opera di riorganizzazione della resistenza. Purtroppo, tradito dall’Eletto

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Anno V - N° 4, settembre/ottobre 2010

Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina edito dal Circolo Cittadino “Athena” - Galatina

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Historia NostraEPAMINONDA VALENTINOdi Rino DUMA 4

Una finestra sul passatoGLI SPINOLA A GALATINAdi Giancarlo VALLONE 8

A proposito di Unità...GALATINA GARIBALDINAdi Vittorio ZACCHINO 10

Scrittori salentiniDUE AMICI ALLO SPECCHIOdi Giuseppe MAGNOLO 12

Una vita per la chiesaDON VINCENZO LIACIdi Gio.elle 14

Terra nosciaIL SALENTO DELLE LEGGENDEdi Antonio MELE ‘MELANTON’ 16

C’era una volta... LA CAPU TI MUERTUdi Emilio RUBINO 18

Artisti salentiniPIETRO BAFFA - UNA VITA PER L’ARTEdI Lorenzo MADARO 20

Eventi sportivi straordinariSU E GIÙ CON LA MONETINAdi Mauro DE SICA 22

Arta sacraLAVORARE ALL’INFERNOdi Luigi MANNI 25

Associazioni culturaliL’UNIVERSITÀ PER TUTTE LE ETÀ...di Gianluca VIRGILIO 26

Salentini famosiCHI CONOSCE TITO SCHIPA?di Francesca RINALDI 28

Sul filo della memoriaLA TELEFONATAdi Pippi ONESIMO 29

SOMMARIO

Vorrei essere fieno sul finire del giornoportato alla derivafra campi di tabacco e ulivi, su un carroche arriva in un paese dopo il tramontoin un’aria di gomma scura.Angeli pterodattili sorvolanoquello stretto cunicolo in cui il giornovacilla: è un’orache è peggio solo morire, e sola luceè accesa in piazza una sala da barba.Il fanale di un camion,scopa d’apocalisse, va scoprendocrolli di donne in fuganel vano delle porte e torneràil bianco per un attimo a brillaredella calce, regina arsa e concretadi questi umili luoghi dove termini,meschinamente, Italia, in poca rissad’acque ai piedi d’un faro.È qui che i salentini dopo mortifanno ritornocol cappello in testa.

Vittorio Bodini

Salento

COPERTINA: “Campagna salentina” - Foto di Francesca Calò

Redazione Il filo di Aracne

Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina, edito dal Circolo Cittadino “Athena”Corso Porta Luce, 69 - Galatina (Le) - Tel. 0836.568220 info: www.circolocittadinoathena.com - e-mail: [email protected] Autorizzazione del Tribunale di Lecce n. 931 del 19 giugno 2006. Distribuzione gratuitaDirettore responsabile: Rossano MarraDirettore: Rino Duma Collaborazione artistica: Melanton Redazione: Antonio Mele ‘Melanton’, Maurizio Nocera, Pippi Onesimo, Piero Vinsper, Gianluca VirgilioImpaginazione e grafica: Salvatore ChiffiDistribuzione: Giuseppe De Matteis

Stampa: Editrice Salentina - Via Ippolito De Maria, 35 - 73013 Galatina73013 Galatina.

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4 Il filo di Aracne settembre/ottobre 2010

HISTORIA NOSTRA

Epaminonda Valentino (chiamato Mino dai familiarie amici) nacque a Napoli il 3 aprile 1810 da Vito, con-sigliere d’Intendenza di Napoli e da Maria Cristina

Chiarizia, i cui familiari parteciparono ai sommovimentiche precedettero la Repubblica Partenopea del 1799.

La famigliaValentino si tra-sferì ben prestoa Gallipoli permotivi di lavo-ro. Il padre Vito,essendo moltofacoltoso, acqui-stò il palazzoD o x i - S t r a c c a(oggi palazzoFontana, in ViaMicetti) e il casi-no di campagnaStracca, a pocadistanza da Vil-la Picciotti (l’at-tuale Alezio).

Il ragazzocrebbe in unafamiglia di spic-

cate idee liberali, cosicché, sin dall’infanzia, fu influenza-to notevolmente nella sua formazione culturale e spi-rituale. Da giovane studente frequentò scuole tra le più fa-mose del napoletano e del Salento, in cui insegnavano i mi-gliori educatori, che contribuirono ancor di più a for-tificargli l’idea repubblicana. Aveva in odio il sovrano Fer-dinando I di Borbone, il quale, rimpossessatosi del Regnodi Napoli, dopo il periodo di occupazione francese, si la-sciò andare a una repressione spietata nei confronti dei li-berali e, soprattutto, dei giacobini. Alcuni suoi parentimaterni furono incarcerati e rilasciati solo dopo un tormen-tato e incerto processo.

Sin da giovane, entrò a far parte dei movimenti settarinapoletani e forse s’iscrisse alla vendita carbonara gallipo-lina “L’Utica del Salento”, guidata dai fratelli Antonio eGregorio de Pace. Questa vendita, mitigata negli atteggia-

menti politici, era antagonista di un’altra vendita cittadina“L’Asilo dell’Onestà”, molto più attiva e intransigente, icui adepti si macchiarono di alcuni omicidi nei confrontidei gallipolini “Calderari”, fedeli al sovrano.

Con ogni probabilità, frequentando la vendita carbonara,ebbe la possibilità di conoscere Rosa de Pace, sorella dellapiù famosa Antonietta e figlia di Gregorio, con la quale sta-bilì, sin dal 1830, un rapporto sentimentale segreto (Rosaaveva all’epoca solo quindici anni). Qualche anno dopo(1836) i due decisero di convivere, anche perché la suacompagna era rimasta incinta. Nel mese di settembre diquello stesso anno nacque il figlio Francesco, che morirà nel-l’estate del 1866, all’età di trent’anni, nella battaglia di Bez-zecca, al seguito di Garibaldi, nella terza guerra d’indi-pendenza. Non essendo ancora sposati, al figlio fu assegna-to momentaneamente il cognome di Onorati e solo dopo illoro matrimonio,avvenuto nel1838, prese il co-gnome del padre.Nel 1841 nacquela secondogenitaLaura.

A cavallo deglianni ’30 e ’40, lacoppia risiedetteora a Napoli ora aGallipoli, per viadell’attività com-merciale dell’uo-mo, ma soprat-tutto per la suaintensa attivitàpolitica.

E p a m i n o n d atesseva le relazio-ni tra i repubbli-cani salentini e quelli napoletani, rischiando il più dellevolte di essere arrestato dalla gendarmeria borbonica, per-ché in possesso di documenti molto compromettenti. Il gio-vane repubblicano si spostava in continuazione da Napoliverso le varie città salentine e da queste ritornava nella ca-

Epaminonda Valentino

Don Antonio de Pace

Di origini napoletane ma gallipolino d’adozione

EE PAMINONDAPAMINONDA

VV ALENTINOALENTINOÈ stato uno tra i più determinati e attivi personaggi del Risorgimento salentino

di Rino Duma

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pitale per tenere vivi e costanti i contatti tra gli affiliati.Ben presto s’iscrisse alla “Giovine Italia” napoletana e

divenne personaggio di spicco, insieme al tarantino Nico-

la Mignogna, al leccese Giuseppe Libertini e ai concittadi-ni Bonaventura Mazzarella, Achille dell’Antoglietta edEmanuele Barba, tre eminenti personaggi gallipolini, in-sieme ai quali costituì una sezione cittadina legata al mo-vimento mazziniano.

In questa importante opera di “tessitura politica” fu aiu-tato dalla cognata Antonietta de Pace, che salirà alla ribal-ta della cronaca per l’intra-prendenza e il coraggio evidenzia-ti durante la sommossa napoleta-na del 15 maggio 1848 sulle bar-ricate di Via Toledo e in occasionedel processo contro di lei intenta-to e dal quale si salvò grazie ad unverdetto “pari” dei giudici napole-tani.

Epaminonda e Antonietta forma-rono un binomio importantissimonella lotta antiborbonica, tanto cheogni operazione politica era vaglia-ta dai due, prima della necessariaautorizzazione a procedere.

Per l’intensa attività politica, lapolizia borbonica aveva inclusonella lista delle persone “attendi-bili” di Gallipoli Epaminonda, in-sieme a Stanislao de Pace (zio diAntonietta) e ai fratelli Francescoe Giuseppe Patitari.

Nonostante tutto, in più circo-stanze Epaminonda fu propostocome il più “desiderato” a occupare la carica di sindacodella città: una prima volta nell’agosto del 1838, una se-conda nel luglio del 1842. In entrambi i casi, il suo nomina-tivo fu categoricamente scartato dall’Intendente cittadino.

Sebbene ci fosse stato il netto rifiuto dell’autorità borbo-nica, nell’agosto del 1844, il Decurionato di Gallipoli ripro-

pose il suo nome alla prima carica cittadina. Il Valentino,convinto che l’Intendente avrebbe rifiutato ancora una vol-ta la sua nomina, scrisse a costui un’ampia e dettagliata

lettera, in cui esponeva le ragioni dellarinuncia, addebitandole ai numerosiimpegni di vita e alle sue non perfettecondizioni di salute. L’Intendente inviòla lettera al Decurionato perché neprendesse atto e presentasse, in sua ve-ce, un altro nominativo. Il massimo col-legio cittadino, riunitosi l’1 ottobre diquell’anno, invalidò le motivazioni ad-dotte dal Valentino, sicché ripropose al-l’Intendente la sua candidatura, ma,ancora una volta, da questi fu rigetta-ta. Anche nel 1845 Epaminonda ebbeun’ulteriore bocciatura in occasionedel suo ingresso nel Consiglio Provin-ciale.

Nel 1848, subito dopo la concessionedella tanto agognata Costituzione daparte di re Ferdinando II, Epaminonda,

insieme ad Antonietta, Bonaventura, Emanuele, GiuseppeLibertini, Achille dell’Antoglietta, Luigi Settembrini e Ni-cola Mignogna, combattè eroicamente sulle barricate a Na-poli, dopo che re Ferdinando II s’era rifiutato di apportarealcune modifiche alla appena nata Costituzione. La guer-riglia tra la Guardia Nazionale (a difesa dei liberali) e lapolizia borbonica fu impari. In poco meno di un’ora furo-

no spazzate via le barricate a colpidi cannone e sulle strade rimasero icorpi esanimi di quasi mille rivolu-zionari.

Dopo lunghe peripezie, i nostrigallipolini ritornarono nel Salento ecostituirono un comitato d’azione indifesa della Costituzione, momenta-neamente sospesa dal sovrano.

In tutta la Terra d’Otranto ci fu-rono grandi manifestazioni di piaz-za che portarono alla destituzionedelle autorità locali, nei confrontidelle quali non fu però torto un so-lo capello. Fu armata sufficiente-mente la Guardia Nazionale chesoppiantò la polizia borbonica, al-la quale fu tolto ogni tipo di armaper prevenire una potenziale rea-zione.

Epaminonda e Bonaventura, in-sieme a Sigismondo Castromedia-no, costituirono a Lecce il CircoloPatriottico Provinciale, cui seguì la

nascita, in quasi tutti i paesi del Salento, dei circoli patriot-tici cittadini. In pochi giorni l’intero Salento era pronto areggere un eventuale urto delle forze borboniche che daNapoli si muovevano verso le terre in agitazione.

L’euforia era tanta, ma, con il trascorrere dei giorni, lapaura di essere attaccati dall’esercito borbonico cresceva

Alezio - Casina de Pace - luogo di riunione de “L’Utica del Salento”

Francesco Valentini - garibaldino

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in ogni salentino. La resistenza, che prima era compatta edeterminata, ora iniziava a scricchiolare, soprattutto per lenotizie che provenivano da Napoli attraverso la stampa.Un esercito di ventimila uomini (eradi soli quattromila) e una consisten-te flotta di navi da guerra muoveva-no verso la Calabria e la Puglia. Iliberali moderati (erano in tanti) chefacevano parte dei vari Circoli Pa-triottici decisero di rinunciare alla ri-schiosa impresa, anche perché eranostati sobillati dalle autorità borboni-che esautorate. Epaminonda e Anto-nietta si recarono in diverse cittàsalentine per mantenere alta la ten-sione e unita la resistenza. Ma ognicosa fu inutile.

Dopo alcuni mesi il Salento ritor-nò nelle mani dei Borbone.

Epaminonda, Bonaventura, Sigi-smondo, Salvatore Stampacchia etanti altri eroi della resistenza salen-tina furono ricercati e alcuni incarce-rati. Bonaventura fuggì a Corfù,Sigismondo e Salvatore furono arre-stati non opponendo alcuna resi-stenza, Epaminonda si diede allamacchia.

Anche durante questo periodo il Valentino continuò nel-l’opera di riorganizzazione della resistenza. Purtroppo,tradito dall’Eletto di San Nicola, Giuseppe Rajmondo, fuscovato nella sua stessa casina di Stracca e arrestato.

L’arresto di Epaminonda fu dovuto al caso. Infatti, av-vertito per tempo dell’imminente arrivo della polizia, l’uo-

mo, alquanto grassottello e malato di cuore, non potendofuggire a cavallo insieme ai suoi amici, fu calato in un gra-naio attraverso una stretta botola, al di sopra della quale fu

sistemato un grosso lastrone. All’ar-rivo dei gendarmi, la moglie Rosa,fortemente preoccupata, volgeva losguardo in continuazione verso ilgranaio. Il tenente borbonico, accor-tosi dello sguardo fisso della donnain quella direzione, decise di togliereil lastrone. Solo in questo modo fuscoperto il nascondiglio dell’uomo.

Tradotto nelle carceri leccesi del-l’Udienza, umide e scarsamentearieggiate, Epaminonda cominciò asentirsi poco bene. Nonostante lesuppliche dei familiari e del medicomilitare, l’uomo fu tradotto insiemea Sigismondo e ad altri liberali, inuna zona del carcere ancora più fati-scente, dove non filtrava un solo rag-gio di luce. L’uomo si aggravòsempre più e la notte del 30 settem-bre 1849, dopo aver chiesto invanodatemi aria… aria!, spirò tra le bracciadi Sigismondo.

Si concluse in questo modo orren-do la bella vita di Epaminonda Valentino: uomo coraggio-so, fiero, amante della libertà e “figlio del vento”, comeebbe a definirlo qualche giorno dopo l’avv. Antonio d’An-drea, durante l’omelia tenuta in una chiesa di Gallipoli.

Il corpo di Epaminonda fu sepolto nel cimitero di Lec-ce, dove, molti anni dopo, fu tumulato anche quello delfiglio Francesco. •

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Verbale di estinzione azione penale

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8 Il filo di Aracne settembre/ottobre 2010

UNA FINESTRA SUL PASSATO

Èindubbiamente paradossale, e per più ragioni, chela stagione feudale degli Spinola a Galatina abbia la-sciato così scarne tracce di sé; eppure le possibilità di

conoscenza erano e restano molte: un dominio di lungoperiodo, dal 1616 al 1801, e per un'epo-ca, poi, nella quale la documentazionenon difetta; una famiglia magnatiziasull'intero scacchiere dei possedimentispagnoli d' Europa, e 'Grande di Spa-gna', indubbiamente assai ricca ed in-fluente, anche se, per quanto ho potutoapprendere, i loro archivi e le loro ric-che collezioni, anche di quadri (inclusii loro ritratti) sono oggi dispersi. Quelche sappiamo noi, comunque, è quasinulla e legato a pochi altri scritti, comeun mio lavoro dell'antico 1984 che, inqualche modo cercano di sanare i silen-zi presenti nelle pagine settecenteschedel nostro Baldassar Papadia, che puresi proponeva di narrare le 'memoriestoriche' di Galatina. Il testo del Papa-dia, per altro, è animato da quell'irsutospirito antifeudale così diffuso nella erudizione locale enella storiografia municipale del Mezzogiorno d'antico re-gime ed ha modo di diffondersi largamente in questi sen-timenti anzitutto contro i Castriota Scanderbeg, che dallafine del Quattrocento fino a buona parte del Cinquecentoerano stati duchi del paese. Quel che Papadia poteva pen-sare degli Spinola era stato certamente detto a sufficienzaparlando dei Castriota; e proprio alla fine dell'opera il giu-rista galatinese afferma che non è suo "istituto di parlar dicause nelle presenti memorie"; in altri termini il silenziosulla famiglia genovese è motivato dal complicatissimo esecolare contenzioso che opponeva l'amministrazione cit-tadina (universitas) ai suoi feudatari; in un punto, poi, Pa-padia ricorda anche un'allegazione sulla 'mastrodattia' (ildiritto di eleggere in genere un concittadino come mastrod'atti, o redattore in scritto degli atti, nel tribunale barona-le) che certo apparteneva a quel contenzioso. In altri ter-mini la storia delle cause e del contenzioso, non sarebbeper Papadia, una parte della storia 'vera' del paese; ma lasua distinzione è capziosa, e certo nasce dalla esigenza di

non schierarsi apertamente contro il fronte ducale, che in-dubbiamente contava degli 'zelanti' fautori in Galatinastessa. Però il buon Papadia mente, perché sa bene che lastoria delle liti è la linfa dello spirito civico, e della sua stes-

sa sopravvivenza, e dunque della suastoria, e poi egli, senza dirlo, usa questeliti, e il loro contenuto 'storico' (lo pos-siamo finalmente riscontrare da una se-rie di allegazioni settecentesche fino adora sconosciute) proprio come materia-li informativi ed eruditi già per l'età deiCastriota, e grazie ai quali egli ad esem-pio descrive, da un anziano testimonedi veduta che era intervenuto in unprocesso del primo Seicento (richiama-to poi in un'allegazione successiva),proprio il duca Ferrante, negli umori enell'aspetto, perché "teneva in Castellouna fossa, ove faceva ponere i carcerati,e... era homo alto come un gigante",che sono, quasi alla lettera, le parolevergate poi dallo storico galatinese.Tuttavia anche il Papadia omette un

particolare di fondamentale importanza che noi invece ap-prendiamo ora, e che consente di valutare in tutta la suacomplessità la stagione galatinese degli Spinola, e la posi-zione, di fronte ad essi, dell'amministrazione universale. Alla estinzione del dominio dei Sanseverino, successori deiCastriota, il distretto feudale galatinese è acquistato, nel1608, da un personaggio che ha lasciato in Galatina, e nel-la memoria locale, pochissime tracce: Antonio Carafa, mar-chese di Corato; ma l'acquisto del Carafa, a caro prezzo,include un potere giurisdizionale illimitato, "la giurisdi-zione civile criminale e mista in prima seconda e terzaistanza". Insomma ogni contenzioso civile o penale, esau-risce il suo corso, ch'è previsto, su base del diritto romano,nei tre gradi di giurisdizione, nella mano feudale, anche sepoi, per prassi, era possibile addirittura una prosecuzionedella causa nelle corti regie con ulteriore esborso di dena-ri per i malcapitati o avventurosi litiganti. Non sono po-chissime, ma neanche molte le città ed i distretti feudalisottoposti ad un simile gravame ed all'urto d'un simile po-tere, che, a ben riflettere, rende costosissimo ogni proces-

Risiedevano a Genova e solo sporadicamente venivano nel Salento

Gli Spinola a GalatinaGli Spinola a GalatinaAvevano un grosso contenzioso con l’universitas di Galatina

di Giancarlo Vallone

Stemma degli Spinola

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so, ed estremamente pericoloso, ed impari poi, un even-tuale conflitto con il feudatario, che lo può far definire perben tre gradi dalle sue magistrature.

Il Carafa ha Galatina solo per cinque anni, ma ben pre-sto, dopo alcuni passaggi di mano, il distretto feudale, coninclusa una simile forza giurisdizionale, nel 1616 giungein appunto in potere degli Spinola genovesi. In un conte-sto come quello dell'età vicereale del Mezzogiorno, in cuila sovrapposizione di un potere feudale ad una universi-tas, e cioè, alla fine, il conflitto tra poteri, è una realtà isti-tuzionale, e con una disparità di forze in campo, nel casospecifico, così evidente, non sorprende che l'iniziativa delcontenzioso, ch'è comunque un tratto comunissimo perquasi ogni distretto feudale, fosse appunto degli Spinola.Sorprende, caso mai, la capacità di resistenza dell'ammi-nistrazione universale. Alcune cose, di questa forza citta-dina, le sapevamo. Sapevamo ad esempio che l'universitasdi Galatina, pur subordinata ad un feudatario, giunge a di-venire, o ad affermare di essere, a sua volta 'baronissa', al-meno fin dal 1577, dei proventi delle cause discusse nellacorte baronale, con la serie di complicazioni ch'è facile im-maginare, e, paradossalmente, consumando abusi feudalia danno del proprio feudatario, anche se questo titolo feu-dale non compare più (ma resta il potere a titolo di sempli-ce privilegio) nella documentazione della fine delSettecento, travolto, probabilmente da un profilo perden-te nel contenzioso con gli Spinola.

Sapevamo anche di un altro titolo baronale di Galatina,che infatti, nel Settecento ha in feudo lo ius scannagii, e chegià indica la grande fioritura dell'arte dei pellettieri. Quelche ignoravamo, inve-ce, e che il Papadiasi guarda benedal rivelarci, è,ad esempio,che gli av-vocati degliS p i n o l averso il1768, giun-sero a pro-vare cheproprio ilp r e z i o s op r i v i l e g i odella mastro-dattia, che si vole-va concesso daFerrante d'Aragona nel1469, era un falso, anche se poisembra che il duca Spinolaperdesse comunque la causa.

Se il Papadia non fa alcuncenno alla questione di questo falso, è perché, per lui, ge-losissimo custode dello spirito municipale, la verità delgiudicato favorevole, che assai probabilmente avrà assor-bito l'eccezione di falso, è più importante della verità sto-rica, dato che a quel falso possiamo forse credere.

Ora questa lotta incessante e dura, che a ben vedere crea

spazi di libertà e di modesto benessere e che porterà Gala-tina, nell'ultimo decennio del Settecento, all'ambitissimotitolo di città, a simbolo di un effettivo e costante progres-so e di una certa articolazione sociale; ebbene questa lottadeve il suo tratto moderatamente vincente anzitutto aduna fortunata circostanza di fatto: l'assenza quasi continuadei duchi Spinola da Galatina. E non si tratta della solitaassenza del barone meridionale, che va a Napoli per lun-ghi periodi e poi rientra nel feudo; si tratta di un'assenzadalla stessa Italia meridionale, legata alla ricchezza ed al-la alta posizione di questo ramo della famiglia genovese. Egli Spinola, naturalmente lo sanno. Nel 1736 il loro avvo-cato, senza mezzi termini, dirà: "non si arrosiscono le parti(galatine) di parlare di osservanza, possesso, e prescrizione con-tro di un barone forestiere il quale è stato sempre assente dal Re-gno, e la sua residenza l'ha fatta sempre in Genova, sua Padria,o in Milano, e gli Agenti pro tempore sono stati l'istessi suoivassalli di San Pietro (in Galatina) come furono per molto tem-po gli Andreani, quali poteano a lor modo pregiudicare al Baro-ne, e far beneficio all'Università?...".

In realtà le cose stavano in modo un poco diverso; se èvero che i duchi Spinola quasi mai si sono affacciati nel lo-ro feudo dell'estrema Puglia, è però anche vero che non dirado sono stati loro 'governatori' o 'agenti ' in Galatinamembri cadetti della famiglia, che in qualche modo hannoesercitato poteri e controlli nell'interesse del ramo feudale.Tuttavia è indubitabile il ruolo fiduciario che gli Andriani(e in qualche caso anche i Gorgoni) hanno avuto e il lororapporto intenso con gli Spinola, protratto per generazio-ni, e del tutto in sintonia con la loro scalata sociale che dal

mestiere di giurista,secon- do un iter

consueto nelperiodo d'an-

tico regime,ha portatoanche loroalla pro-prietà feu-d a l e ,conservatapoi, finoa l l ' abo l i -

zione dellaf e u d a l i t à ,

della vicinaSanta Barbara.

Tutto questo servea spiegare, come si di-

ceva, appunto quel progres-so costante della città, anchedurante secoli, come il Sei-cento, che erano stati di ge-

nerale involuzione e povertà. Anche per questo non c'èda meravigliarsi nel constatare che le 'parti galatine' nonarrossirono affatto; il contenzioso è stato sempre ininter-rotto, e termina, in definitiva, con la fine della feudalità,cioè in altre parole quando cessa la ragione istituzionaledel contendere. •

settembre/ottobre 2010 Il filo di Aracne 9

Amsterdam - RijkmuseumPlacchetta in argento raffigurante l’ingresso diGiovanni Battista Spinola in Galatina nel 1636

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Come ovunque, in Italia e nel mondo (vale la penadi leggere la superba monografia dedicatagli dalcompianto Alfonso Scirocco, Garibaldi, Milano Ediz.

Corriere della Sera 2005), anche in Salento e a Galatina Ga-ribaldi fu amatissimo, addirittura idolatrato. Nonostantel’oleografia, l’agiografia e la retorica che hanno invaso estravolto la storiografia risorgimentale, occorre ammettereche la gente non aveva saputo resiste al fascino travolgen-te di questo campione dal temperamento forte e deciso,indomabile, generoso, ardimentoso, Giuseppe Garibaldida Nizza, l’esatto contrario di un carrierista della politicae delle curie.

Nell’agosto 1860 sul punto di varcare lo stretto per pun-tare su Napoli, dopo aver liberato “le terre sicane / dal gio-go” - come cantò il brindisinoCesare Braico - e con la regia di unGiuseppe Libertini giunto appostada Londra per far insorgere simul-taneamente le province meridio-nali, tanti salentini, ben cin-quecento, corsero a indossare lacamicia rossa, ad imitazione deimolti conterranei della prima orache avevano fatto parte dei Mille,dal Braico al Mignogna, dal Car-bonelli al Trisolini. Nonostanteturbamenti e crisi di coscienza, ro-ghi di ritratti reali, sommosse le-gittimiste, assalti ai conventi,istigazioni di preti retrivi e scor-ribande di briganti per tutta la Ter-ra d’Otranto, i nostri giovani ven-nero attratti irresistibilmente dalbiondo nizzardo e, qua e là, i no-stri popolani cantarono: “Ci passaCarribbardi / caribbardinu m’ag-ghiu affà”.

Galatina, si diceva, fu tra le città nostre che dettero uncontributo rilevante alle campagne di Garibaldi: come lenotizie della sua rapida vittoriosa campagna siciliana sidiffusero in città, l’entusiasmo scoppiò irrefrenabile e di-versi corsero ad indossare la leggendaria camicia rossa, ilpittore Gioacchino Toma, il pellettiere Antonio Contaldo

che dismise l’uniforme di soldato borbonico per seguireGaribaldi e si distinse a Gaeta guadagnandosi una meda-glia, e perfino il pretino Pietro Andriani secondogenito delbarone di Santa Barbara. Quest’ultimo, qualificato sovver-sivo e testa calda fin da quando frequentava il seminario,gettò via la tonaca e si arruolò tra i garibaldini. Dopo il1860 fece di tutto per campare, ma premuto dalla fame edal bisogno, fu costretto a rientrare nel gregge. Ma le fi-gure più prestigiose restano Gioacchino Toma, pittore dinotorietà nazionale, e Fedele Albanese patriota e giorna-lista.

Nato nel 1836, “spirito irrequieto e insofferente di qual-siasi soggezione”, rimasto orfano a soli 10 anni, dopoun’adolescenza difficile e ribelle, trascorsa per sette anni

fra i cappuccini di Galatina e unorfanotrofio di Giovinazzo (a cari-co della Provincia di Lecce) dovelo avevano rinchiuso, Toma se neera fuggito a Napoli in cerca di for-tuna. Qui, mettendo a profitto l’in-clinazione al disegno e alla pitturacoltivata in collegio, il giovaneaveva cercato di sbarcare il luna-rio. Ma come Garibaldi si affaccia-va sullo stretto per lanciarsi allaconquista di Napoli, eccolo il no-stro Gioacchino diventare patriotaquasi per caso e senza volerlo.Narra il Foscarini che una sera ven-ne arrestato e tradotto nelle carceridella Vicaria, donde uscì dopo un me-se e mezzo per andare al confino inPiedimonte d’Alife. Testa calda espirito irrequieto e talvolta turbo-lento, era inevitabile che venissecoinvolto nella rivoluzione in cor-so. Sicché allorquando Francesco

II tentò di salvare il trono con la tardiva concessione del-le libertà costituzionali, Toma entrò nelle file dei cospira-tori e alla testa di rivoltosi assalì e distrusse la casermaborbonica. Seguì l’ arruolamento nelle file dei garibaldini,nella Legione del Matese, e dopo la presa di Benevento ot-tenne la nomina a sottotenente. Racconta che mentre la le-

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A PROPOSITO DI UNITÀ...

Verso i 150 anni dell’unità d’Italia

GALATINA GARIBALDINA

di Vittorio Zacchino

Due garibaldini galatinesiGioacchino Toma e Fedele Albanese

G. Toma - I figli del Popolo (olio su tela)

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gione ripiegava verso Padula “venne un dispaccio ad an-nunziare che Garibaldi era entrato in Napoli, ed io,che ero sta-to un de’ primi a sentir quella notizia,corsi subito a darla ainostri soldati, che erano alloggiati in unconvento. Diventarono quasi matti persulle spalle, mi sollevarono in alto, e get-tandomi addosso la paglia in cui doveva-no dormire, mi fecero girar così tutti queia che stanchi, fra un diavolio da non si di-re, mi buttarono a terra e là mi seppelliro-no di paglia”.

In seguito Toma aveva preso parte adiversi fatti d’armi, a Santa Maria Ca-pua Vetere, a Caserta, in Molise. Cat-turato a Pettoranello di Isernia il 17ottobre, egli era stato condannato al-la fucilazione, da cui riuscì a scampa-re per puro caso. Dai suoi Ricordi diun orfano (Galatina Congedo 1973 perla cura di A. Vallone) togliamo il bra-no significativo in cui dopo esserestato dato per morto, e dopo aver at-traversato “tutta la lunga strada di Iser-nia al fianco del Generale Cialdini, vaa ritrovare a Campobasso i correligionari in camicia rossache non credono ai propri occhi “nel vedermi vivo, mentrenella certezza che io fossi morto, avevan già, come ho detto, rac-colto il denaro per farmi il funerale. Grande fu l’allegrezza loro

e, servendosi di queldenaro, festeggiaronocon un pranzo la miarisurrezione e mi die-dero in ricordo diquel giorno, un bel-lissimo pugnale”.Poco dopo, scioglien-dosi l’armata gari-baldina, diedi anch’iole dimissioni e tornaiin Napoli (…).

Compiuta l’an-nessione del Sud alPiemonte ilnostro si dettetotalmente al-la pittura di-p i n g e n d o

alcune tele in cui rievocava episodi delle campagnegaribaldine cui aveva partecipato. Garibaldini prigio-nieri, O Roma o morte, e Piccoli Garibaldini, sono le piùcelebri. Quest’ultima, con i piccoli che festeggiano iritratti di Garibaldi e di Vittorio Emanuele, fu sicura-mente ispirata dai tanti auto da fè di stemmi ed effigisabaude infranti nelle piazze dai partigiani borboni-ci, dei toselli con i ritratti di Garibaldi e di VittorioEmanuele II arsi in pubblico. Se da un lato queste scenepatriottiche gli pro- curarono fama, dall’altro, dati i lorocontenuti rivoluzionari, accentuarono il suo isolamento inuna Napoli ancora sostanzialmente borbonica per cui inquesti primi anni unitari egli patì l’indigenza. Ma l’Ammi-

nistrazione Provinciale di Lecce corse in aiuto del figlio,sensibilizzata (a insaputa di Toma) da un manipolo di ar-tisti napoletani - Palizzi, Morelli, Catalano ed altri – (cfr. V.

ZACCHINO, Gioacchino Toma tra rinnova-mento stilistico e difficoltà economiche (1865-1867) in “Il Corriere Nuovo” di Galatina.Benché queste sue “bambocciate” eranoun poco incerte, trasmettevano il patriotti-smo e le speranze di un popolo lunga-mente represso.

Fedele Albanese (1845-1882), è l’altroverace garibaldino galatinese, impulsivoma di mente sveglia (il termine “garibaldi-no” nelle famiglie tradizionali allineate coni Borbone era sinonimo di rivoluzionario,testa calda e avventata). Già ai primi delsettembre 1860, quattordicenne, con altristudenti, alla testa di un grande stendardoconfezionato in casa sua, era salito su unatribuna improvvisata e aveva tentato di te-nere un comizio che però era stato scioltodalla polizia. Più fortunato di lui il cap-puccino Giacomo Calignano il quale ilgiorno dopo, “cinto di sciabola e di sciarpa

tricolore, si pose alla testa della cittadinanza , la condus-se al Largo dei Cappuccini e la arringò con un sermonepatriottico con scandalo dei suoi superiori. Nel 1866 il no-stro interruppe gli studi per indossare la camicia rossa edarruolarsi, appena ventenne, tra i cacciatori delle Alpi im-pegnati nella spedizione tirolese. Presa poi la laurea ingiurisprudenza con lode, il nostro era tornato a indossarela camicia rossa nello sfortunato scontro di Mentana del1867,insieme a diversi commilitoni leccesi (Panessa, Leo-ne, Morone, Grande, Patera) agli ordini di Giovanni Ni-cotera. Presa la laurea nel 1868, Albanese si ritroveràancora una volta il 20 settembre 1870 alla breccia di PortaPia che varcherà tra i primi, da giornalista. Fu valoroso eonesto collaboratore di numerosi giornali , tra Napoli eRoma; ultimo di essi l’amatissimo “Monitore”, ma quan-do questo giornale cessò le pubblicazioni,per causa di for-za maggiore, il garibaldino Albanese non riuscì asopravvivergli e si uccise nel marzo 1882. Qualche mese

prima della mortedel suo eroe Gari-baldi.

E’ giusto che og-gi, alle soglie del150° anniversariodella pur discuti-bile Unità, l’Italia,il Salento, e Gala-tina ritrovino lospirito unitarioche ebbero il ducedi Caprera e i “ga-

ribaldini” di Galatina, Albanese e Toma, con tutti i salen-tini audaci che furono al suo seguito. Perché, siamo certi,passato il rigurgito retorico del 150°, sulla memoria diquegli eroi e di quegli eventi, inesorabile ripiomberàl’oblio e ritornerà “a strisciar la lumaccia”. •

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Fedele Albanese

Gioacchino Toma

Testata de “Il Monitore”

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Nell’ambito della critica si discute spesso se un pro-dotto artistico-letterario debba considerarsi la co-pia di qualcosa che esiste in natura e che si ricava

dall’esperienza (teoria imitativa), oppure se non sia piutto-sto l’arte con la sua spinta propulsiva a dettare i canoniideali a cui l’agire umano si conforma, tentando di realiz-zare nella vita le più alte aspirazioniconcepite dalla mente umana (teoriacreazionista). Leggendo le intense pa-gine dell’opera di Antonio Toma DueAmici allo Specchio (ed. Albatros, Ro-ma, 2010) tale dilemma non ha moti-vo di proporsi, per la semplice ragioneche poche volte come in questo caso lascrittura può veramente identificarsicon la vita stessa, senza alcuna prete-sa di tipo sia imitativo che idealizzan-te rispetto all’esperienza vissuta.

Si può scrivere per i motivi più di-versi: la gioia del narrare, il desideriodi condivisione, l’appagamento chederiva dall’uso più o meno sapientedei mezzi espressivi, la possibilità dicondurre il lettore nel mondo dei so-gni più sublimi o delle realtà più duree crude. Si scrive ancora in modo fina-lizzato ad allettare capziosamente il pubblico, oppure im-pressionarlo per poi trarne profitto. A questi differentimodi di intendere le finalità della scrittura corrispondonoanche vari espedienti nell’uso delle risorse linguistico-espressive, sino a pervenire alla definizione di un vero eproprio stile più o meno personalizzato.

Molti degli elementi suddetti potrebbero essere richia-mati per i temi trattati e il metodo narrativo usato da A.Toma, scrittore esordiente che è nato e vive a Maglie, edesercita la professione forense presso la Corte di Appello diLecce. Tuttavia a noi pare che nulla eguagli la sua deter-minazione di affermare attraverso la razionalità e la valen-za testimoniale insite nella scrittura la sua pienaconvinzione sul valore della vita in prospettiva sia indivi-duale che collettiva. Infatti Due Amici allo Specchio si pre-senta inizialmente come un tranquillo racconto di ricordiadolescenziali, su cui però gradualmente incombe una di-

mensione esistenziale pesantemente negativa, rappresen-tata dalle varie difficoltà connesse alla crescita e matura-zione del protagonista, e quindi le problematicità cheinevitabilmente emergono sul piano relazionale, socio-eco-nomico, emotivo, fisiologico, terapeutico.

Si tratta di un percorso in cui le speranze giovanili appa-iono progressivamente frustrate dalladelusione e persino dal rischio di so-pravvivenza prodotto dal male, sia insenso fisico che in quello psicologicoche inevitabilmente lo accompagna.In questa sorta di “discesa agli infe-ri” emerge tuttavia la forza di alcuniappigli che sostengono il protagoni-sta, e lentamente gli consentono ditrovare le risorse preziose che gli per-mettono di risalire la china: gli affettifamiliari, le certezze che sostanzianoe corroborano un’amicizia sincera, esoprattutto la sua pervicace convin-zione di non dover cedere di fronte aiguasti fisici, mantenendo sempre vi-ve in sé stesso fiducia e speranza.

Non illudiamoci tuttavia che que-sta narrazione apparentemente a lie-to fine possa costituire ragione per

un facile ottimismo, che non trova veramente alcuno spa-zio non solo perché le ferite profonde prodotte nel corpoe nello spirito non possono mai rimarginarsi del tutto, maanche per la consapevolezza indelebile che la vita umanaè destinata ad una condizione di temporalità solo provvi-soria. Dalla constatazione di non poter comunque elude-re tale verità sono nati nell’autore due bisogni impellenti:il primo è stato quello di dimostrare a sé stesso di poteresercitare attraverso una forma personale di scrittura or-ganica ed efficace un pieno controllo sulle sue facoltà lo-gico-espressive. Il secondo stimolo avvertito con urgenzaè stato quello di fissare sia per sé che per gli altri le coor-dinate basilari di un percorso di vita dall’adolescenza al-la maturità, ritrovandovi i requisiti fondamentalinecessari alla condivisione attraverso la memoria seletti-va di tipo individuale.

Questo libro presenta sul piano formale tutti i pregi ed

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SCRITTORI SALENTINI

IL CORAGGIO DELLA SCRITTURA DI ANTONIO TOMAIL CORAGGIO DELLA SCRITTURA DI ANTONIO TOMA

“DUE AMICI ALLO SPECCHIO”“DUE AMICI ALLO SPECCHIO”

di Giuseppe Magnolo

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anche le incertezze dell’opera prima. Da un lato vi è la pre-gnanza di un vissuto assaporato con intensità e nostalgi-camente rivisitato attraverso la magia del ricordo, edinsieme l’insofferenza che spesso accompagna la spintagiovanile all’autorealizzazione in una realtà sociale ed eco-nomica come il Salento, che non presenta spazi vitali di fa-cile intrapresa. Accanto a ciò troviamo una deliberatascelta di oggettività nel narrare che quasi obbliga l’autoread uno sdoppiamento, o quantomeno lo vincola ad unacostante spersonalizzazione, nel suo evidente tentativo dinon cedere mai ad una visione di fatalistica autocommise-razione. Di conseguenza anche lo stile, che riesce sempreassai sobrio e calibrato sul piano lessicale, talvolta rischiadi rimanere ingessato in un’ottica documentale che lasciapoco spazio al sentimento, al sogno, all’idealità pura, alsenso del divino, che pure sono parte viva dell’esperienza.

Dicendo ciò intendiamo aprire le potenzialità dell’au-tore a nuovi scenari realizzativi, essendo ben consapevo-li che trovare la propria strada in questo ambito richiedeper chiunque non soltanto sensibilità e talento, ma anchededizione e capacità di saper definire un proprio lettore-target, valorizzando al massimo le proprie risorse. Al tem-po stesso siamo convinti che tale percorso, per quanto insalita, una volta intrapreso diventi pressoché irreversibi-le, soprattutto quando si abbia la convinzione, già cosìevidente in A. Toma, che, anche se in modo virtuale, lapagina stessa può essere vita e creare i presupposti affin-ché essa perduri.

Sul piano prettamente letterario in quest’opera si col-

gono chiaramente capacità descrittive che sanno renderecon efficacia il rapporto di sintonia e proiezione verso larealtà naturale in modo non esornativo ma intensamenteavvertito e partecipato. Ma soprattutto in alcuni passag-gi (vedasi ad esempio quello del capitolo iniziale sull’eca-tombe dei rospi) è anche possibile constatare la tendenzaspontanea dell’autore a far lievitare in modo inatteso leimplicazioni della propria scrittura, arricchendola di ri-svolti allusivamente simbolici.

La possibilità di un libro di permanere nel tempo lo ca-rica a volte di un valore etico che può renderlo davveroprezioso. Soprattutto questo avviene quando, come inquesto caso, dietro la sua stesura si cela non tanto la fina-lità di un effetto liberatorio, quanto invece una volontà diapertura alla condivisione, nonostante la necessità di pa-gare uno scotto altissimo in termini di sofferenza e di ri-nuncia. E’ facile intuire che Antonio Toma abbia spessoricordato il motto latino “per aspera ad astra”, da lui appre-so sui banchi di scuola prima di sperimentarlo nella vita.In realtà è proprio la consapevolezza del rischio di poterperdere qualcosa che ci appartiene che finisce col render-la assai più significativa ai nostri occhi, mettendoci in gra-do di difenderla contro le difficoltà più grandi. Il poteressere partecipi di tale prospettiva come lettori chiamatia conoscere, riflettere, capacitarsi, sortisce un effetto sicu-ramente importante per chiunque prenda in mano que-st’opera, che con tocco apparentemente lieve ci offrel’occasione per osservare uno spaccato di esperienzaumana profondamente coinvolgente. •

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Il tre luglio scorso, in Gallipoli, in occasione del 50° an-niversario della morte di Don Vincenzo Liaci - Parrocodelle Chiesa di San Francesco d’Assisi -, per iniziativa

dei nipoti e con la determinante collaborazione della So-cietà di Storia Patria per la Puglia - Sezione di Gallipoli edelle Associazioni “Gallipoli Nostra“ e “ANXA“, si è svol-to un convegno sulla figura di Vincenzo Liaci nei tratti del-l’azione pastorale e dell’attività di studioso e storico.

La commemorazione, tenuta nella Chiesa suddetta, havisto la partecipazione del Sindaco, di Assessori e ammini-stratori cittadini, del rappresentante della Curia Vescoviledi Nardò-Gallipoli e di moltissima gente che ha avuto mo-do di conoscere don Vincenzo o che ne ha sentito parlare.

Due ampie relazioni sono state tenute: una dal Canoni-

co don Luciano Solidoro, che ha tratteggiato la figura del“suo Parroco” e della relativa azione pastorale e l’altra daElio Pindinelli, che ha curato e presentato un libro conte-nente una silloge di scritti vari dal titolo “Fede e Culturanegli scritti di Vincenzo Liaci“ definito peraltro cultore raf-finato della storia e della cultura di Gallipoli e del Salento.

Il canonico aveva compiuto gli studi di filosofia e teolo-gia nel seminario regionale di Molfetta , in cui era stato as-sistente di camerata e Direttore dell’oratorio festivo di sanFilippo Neri; aveva anche assunto le mansioni di bibliote-cario di quel prestigioso seminario.

Don Vincenzo Liaci, nella testimonianza tenuta nel con-vegno dal nipote più caro Giorgio, morì il 2 luglio del 1960,a soli 43 anni, quando già era stato avviato l’iter per la sua

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UNA VITA PER LA CHIESA

DD O N O N VV I N C E NI N C E NFede e Cu

negli scritti e di Gio.el le

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nomina a vescovo e la sua improvvisa scomparsa lasciò inchi lo aveva conosciuto grande sgomento. L’improvvisamorte disperse, anche per disattenzione e leggerezza di chiavrebbe dovuto custodirli con gelosa avarizia, i suoi lavo-ri di storia, d’arte e di cultura che il nostro andava ansio-samente compilando.

Uomo di fede e di cultura aveva in quegli scritti trasmes-so, soprattutto ai giovani, la passione per gli studi storici,la paziente ricerca metodologica e l’amore per la terra sa-lentina.

Scrive Pindinelli che, per la commemorazione c’è statavolontà comune e condivisa con i nipoti “di raccogliere nelvolume presentato gli scritti più significativi di don Vin-cenzo”, scritti dispersi in quotidiani e riviste dell’epoca ilcui reperimento ha presentato non poche difficoltà. La sua

grande passione, insieme alla vocazione sacerdotale, fuGallipoli e soprattutto i libri, i documenti, le testimonian-ze della sua storia, dei suoi uomini e di tutto ciò che co-munque avesse “uno spessore di memoria e di culturalocale”.

Suoi grandi amici, maestri, estimatori e compagni di stu-dio furono il gallipolino storico Ettore Vernole e il medicocultore leccese Nicola Vacca, i quali frequentavano assi-duamente la casa canonica la cui austerità veniva di tantoin tanto turbata dalla impertinente vivacità dei nipoti delparroco.

Ricorda ancora Elio Pindinelli che Vernole e Liaci “va-gheggiavano un sogno: il canonico Liaci di raccogliere nel-l’antico convento di san Francesco d’Assisi la memoriastorico e culturale del passato religioso di Gallipoli; lo sto-rico Vernole di poter completare l’opera , iniziata a metàdegli anni venti, della raccolta nel Civico Museo gallipoli-no dei dipinti , dei documenti, delle lapidi e di tutto ciòche poteva essere utile a tracciare , attraverso il filo dellamemoria , la cultura , la tradizione , l’arte di un popolo ela sua identità”.

Il lavoro fatto, e testimoniato nel convegno, si spera pos-sa servire a far crescere presso i giovani una memoria cheonori Gallipoli ed ogni luogo del Salento. •

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C E N Z O C E N Z O LL I A C II A C Ie Cultura

tti e nella vitadi Gio.el le Don Vincenzo Liaci illustra al Presidente della

Repubblica Einaudi il “Tesoro di Sant’Agata”

Don Vincenzo somministra la Comunione

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Ipiù grandi piaceri della vita sono certamente quelli piùpiccoli. Un bicchiere di vino fresco con gli amici, adesempio. Magari in una sciroccosa sera d’agosto, prefe-

ribilmente in campagna, con stelle e lune rosse sul capo, ebaluginio di paesi lontani all’orizzonte.

O rivedere un vecchio film – comico, romantico, d’av-venture –, di quelli legati ad un momento speciale dellanostra adolescenza (stagione della vita in cui peraltro ognimomento è speciale), ritrovandosi a ridere, o perfino apiangere da soli.

O ancora di più quando, in una benefica sosta dalla fre-nesia moderna che tutto divora, ci accade di leggere i vec-chi cunti della nostra tradizione più terrigna, popolati dimagiche figure e luoghi fiabeschi e irraggiungibili: PapaCaiazzu, lu Nanni Orcu, lu Mamau, li Sciacuddhi, le case sper-dute nei boschi (identificate da una “luciceddha ca se videluntanu luntanu”), o le lande spaurenti e misteriose dove“nu canta caddhu e nu luce luna”…

Se poi li cunti si ha la ventura d’ascoltarli direttamentedalla voce delle nostre antiche nonne (specie ormai assairara ma che sempre riaffiora nelle incantate contrade sa-lentine) allora si viaggia davvero sulle nuvole.

Le nonne. Quante ne abbiamo avute, noi piccoli d’altritempi? Ogni vicolo, corte, strada o viuzza del quartierebrulicavano di queste splendide fate vestite di nero e di ru-ghe, coi candidi capelli raccolti ad arte sotto fazzoletti diprimavera. Sferruzzavano per lo più sulla soglia di casa,quando non sistemavano pochi panni ad asciugare su unabreve corda tenuta distante dal muro tramite una piccolacanna, oppure controllavano i pomodori distesi a seccareal sole sui marciapiedi, fra graticci di fichi e talaretti di fo-glie di tabacco.

Se le avvicinavi senza timore, allora tiravano fuori dalletasche del grembiule inenarrabili meraviglie in regalo: roc-chetti di filo colorato, foglie inebrianti di menta e di basi-lico, fichi tostati, pesciolini di liquirizia, frammenti ditaralli o mostaccioli, mandorle bianche, qualche lupino. Eil loro caldo sorriso.

7. Non è appunto al sorriso e al buonumore che muovo-no molte delle leggende salentine, tanto fantastiche dasembrare vere?

Se Soleto (come abbiamo let-to nella prima puntata di que-sto nostro fantastico viaggio)può in un certo senso vantarsiche la sua celebre “guglia diRaimondello” fu costruita inuna sola notte dal mago Mat-teo Tafuri di concerto con dia-voli e streghe, pochi forsesanno che anche a Tricase la co-siddetta Chiesa Nuova fu ope-ra del Maligno. Il quale,parimenti, la eresse nell’arco diun’unica nottata, dopo un pat-to con il cosiddetto “Principevecchio”, che la tradizione popolare identifica in messerJacopo Francesco Arborio Gattinara, marchese di San Mar-

tino, personaggio real-mente esistito.

Secondo la leggenda, ifatti si svolsero in questomodo. Intorno alla finedel XVII secolo, messerJacopo decise di favorire inumerosi contadini chelavoravano e vivevanonelle campagne (e voleva-no scacciare le Malumbreossia gli spiriti maligni),costruendo fuori Tricase,sulla via verso il mare,una nuova chiesa, storica-mente ultimata nel 1685, apianta ottagonale, e dedi-cata alla Madonna di Co-stantinopoli. A tale scopo– attraverso il fatato “Li-bro del Comando” – pen-sò bene di evocare ilDiavolo in persona, peral-tro con il segreto intentodi prendersi beffe di lui,come vedremo.

La sfida proposta dalnobile di Tricase, che contemplava la costruzione dell’edi-ficio sacro in una sola notte, fu accolta dal Diavolo, a con-dizione però che, nella stessa chiesa, a offesa e scherno diDio, il Principe vecchio avesse poi offertol’ostia consacrata ad un caprone, simbolodi Satana. Per tale impegno, in aggiunta, ilSignore delle Tenebre avrebbe lasciato nella nuova chiesaun forziere pieno di monete d’oro.

Sancito il patto, ed eretta la chiesa, la mattina del giornodopo il Diavolo ricordò la promessa al Principe vecchio, ilquale negò di avergliela mai fatta. Sentendosi beffato, enon avendo più il potere di distruggere l’edificio sacro ap-pena eretto, il Diavolo sfogò allora la sua collera aprendonei pressi un canalone d’acqua (chiamato dai tricasini Ca-

nale del Rio) e gettandovi den-tro le campane della chiesa, cheancora oggi, nei giorni di tem-pesta, sembra facciano sentire,risalenti da sottoterra, i loro cu-pi rintocchi.

E il forziere con le moneted’oro? Il Principe vecchio ebbemodo di trovarlo ed aprirlo, madentro – di beffa in beffa – pareche vi si trovassero delle insi-gnificanti monete di metallo vi-le o (secondo altre versioni)addirittura dei sassi.

8. “È natu nu stregone a lacasa mia!” pare che gridassero un tempo i padri di bimbimaschi nati nella notte fra il 24 e il 25 dicembre. In quella

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terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra n

Misteri, prodigi e fanell’antica Terra d’O

Terza puntata

di Antonio Mele ‘Mela

Quando muoiono le leggende finisQuando finiscono i sogni, finisce og

Tricase - Chiesa nuova o dei diavoli

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data fatidica – la santaNotte di Natale – non siammetteva infatti che po-tessero venire al mondoaltre creature all’infuori diGesù Cristo. Sicché, quan-do succedeva, era creden-za diffusa che gli“sventurati” maschiettiereditassero una doppianatura, quella umana equella bestiale, e non c’eraaltra soluzione di esorci-smo che salire sul tettodella casa, a mezzanottein punto, e gridare al ven-to la notizia, in modo cheil vento stesso la potessedisperdere.

La leggenda s’intrecciacon altre leggende, chevogliono la Puglia e il Sa-lento (soprattutto nellezone tra Nardò e Avetra-na, e più a sud-est, versoil litorale idruntino) esse-re state per secoli conside-

rate terre di lupi mannari. Alcuni antropologi sostengonoanzi che la licantropia abbia avuto le sue origini proprionella nostra regione.

Secondo il mito, Licaone, re dell’Arcadiae padre di cinquanta figli, ne sacrificò unoa Zeus per ingraziarselo. Ma il Padre degli

dei, inorridito dall’empietà del gesto, inseguì il re fino inPuglia, dov’era ri-parato, e qui lotrasformò in lu-po, lasciandoglituttavia assumerealternativamentetanto la naturaumana (visibilequasi sempre digiorno) quantoquella belluina(manifesta di not-te, ed in particola-re nelle notti diplenilunio).

La più anticastoria di lupi mannari la troviamo addirittura nella Bibbia, eriguarda il famoso re Nabuccodonosor che, per la sua vani-tà, fu trasformato in lupo da Dio. Anche nella mitologia egi-zia, il dio Ap-uat che traghettava i morti nell’aldilà avevasembianze di uomo-lupo. Fino ad arrivare al periodo fra il1500 e il 1600, in cui in tutta Europa la “caccia ai licantropi”era addirittura diffusa quanto e più di quella alle streghe.

A tale proposito, sentiamo il dovere di fornire ai nostrilettori alcuni utili consigli, nel caso dovessero incontrare

qualche lupo mannaro, e volessero metterlo in fuga. La pri-ma e più sicura precauzione è posizionarsi al centro di unincrocio, perché questi esseri hanno terrore delle croci. Tut-tavia, se nelle vicinanze con ci fosse un incrocio disponibi-le, basterà salire sopra un gradino e aspettare tranquilli cheil lupo mannaro se ne vada: è noto infatti che i lupi man-nari sono del tutto incapaci di salire le scale, e perfino unsolo gradino.

Se per colmo di sventura non disponeste neanche di gra-dini, allora spargete per terra del sale grosso (tenetenesempre prudentemente una piccola scorta nelle tasche): ilnostro avversario, in tal caso, si fermerà a raccogliere e con-tare ad uno ad uno i granelli di sale gettati per terra, la-sciandovi tutto il tempo per svignarvela alla chetichella.

Infine, se nessuno degli antidoti di cui sopra fosse a vo-stra disposizione, recitate con fiducia una preghiera, e spe-rate ardentemente che il lupo mannaro di fronte a voiabbia già fatto per suo conto un’abbondante colazione…

9. A proposito di streghe, lo sapete che nel nostro Salen-to ce ne sono ancora tantissime? No, non ci riferiamo allevarie megere di più o meno diretta conoscenza, tipo suo-cere e affini: parliamo veramente di striare e macare, le stre-ghe originali di Terra d’Otranto, che zòmpano, ballano ecavalcano scope volanti.

Uno dei luo-ghi deputatiper i famosi (ofamigerati) sab-ba stregoneschiè il cosiddetto“noce del muli-no a vento” inagro di Uggia-no La Chiesa.Quest’alberomagico pare siaubicato neipressi di un an-tico frantoioipogeo d’epocaseicentesca (recentemente restaurato), ma nessuno ne cono-sce esattamente il sito, o lo tiene prudentemente segreto, perevitare malocchio e sfortuna.

I paesani comunque sostengono che ancora oggi, in alcu-ne notti di luna piena e fino all’alba, in un’ampia zona del-la campagna tra Uggiano e il vicino borgo di Casamassellasi diffondono nell’aria suoni indistinti e spaventevoli, in-frammezzati da alte grida, canti e risate oscene, che terro-rizzano perfino gli animali domestici e la selvaggina.

Se, vostro malgrado, vi dovesse capitare di trovarvi coin-volti in un sabba, e volete evitare di essere risucchiati inaria, rischiando poi di ballare freneticamente per una not-te intera e di morire stremati, imparate e recitate all’occor-renza, per tre volte consecutive, questa filastroccascaccia-guai: “Zzumpa e balla, pisara, zzumpa e balla forte, sescappi de stu chiacculu non essi cchiui de notte… Sutta l’acquae sutta lu jentu sutta lu noce de lu mulinu a jentu”.

Buona fortuna. (3. continua) •

settembre/ottobre 2010 Il filo di Aracne 17

erra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia

i, prodigi e fantasie tica Terra d’OtrantoTerza puntata

onio Mele ‘Melanton’

oiono le leggende finiscono i sogni.cono i sogni, finisce ogni grandezza.

Lupo mannaro

Strega

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Questo aneddoto – trasmesso alcuni anni fa da Ra-dio Nardò Uno, e ora riproposto ai lettori de “Il fi-lo di Aracne” – non è un racconto immaginario

partorito dalla fervida fantasia di un buontempone, ma unavvenimento realmente accaduto nelle campagne neritineall’inizio dello scorso secolo.

Vi era un giovane contadino, che, sobbarcandosi a enor-mi sacrifici quotidiani, era riuscito a impiantare un orto nelsuo piccolo podere. L’uomo, infatti, dopo aver “scapulatu”da altri fondi, cioè dopo aver compiuto una faticosa gior-nata di lavoro presso terzi, soleva recarsi ogni giorno pres-so il suo appezzamento di terra. Senza neanche passare dacasa a consumare un frugale piatto di legumi, il buon con-tadino preferiva prendersi cu-ra delle proprie piantine, sar-chiarle, annaffiarle, conci-marle con del buon letame al-meno una volta al mese e far-le crescere rigogliose e sane,come se stesse allevando unproprio figliolo.

Ogni giorno la stessa canzo-ne, ogni giorno lavorava peroltre tredici-quattordici ore.Una vita dura, la sua, un’esi-stenza da povero diavolo!

D’altra parte, che cosa non sifa per la propria famiglia?

Ma una vita così stressante non poteva certamente dura-re a lungo. Infatti, il bravo contadino, tutto casa e lavoro,ben presto si ammalò gravemente. Il verdetto non potevache essere infausto: broncopolmonite cronica, giunta or-mai all’ultimo stadio! La malattia era stata contratta quasisicuramente nel suo podere durante le ore di lavoro stra-ordinario. Il poveretto morì in capo a una settimana tratanto dolore e disperazione della giovane sposa, che por-tava nel ventre il frutto del loro amore. La donna rimasevedova e sola, senza l’aiuto di parenti (non ne aveva), conquella creatura che stava per nascere e che sarebbe rimastaorfana per tutta la vita, con quel podere abbandonato, conlo spettro della miseria e della solitudine eterna.

Era terribile al solo pensare: una tragedia del genere nonpoteva finire così. E non finì così, perché ci fu un altro gio-

vane, anch’egli contadino, che, sebbene non avesse maiosato dichiararsi a una donna per via della sua innata timi-dezza, decise, tra molti tentennamenti e perché spinto daun parente che gli prospettava l’imperdibile occasione, difare il difficile passo. La donna, pur tra tanto rossore e ver-gogna, accettò la proposta, giacché il dichiarante era perdavvero un bell’uomo.

E “si nsurara” (si sposarono) subito, anche perché a queitempi, a differenza di quelli attuali, non era necessario at-tendere che trascorressero i trecento giorni di lutto vedovi-le. Il matrimonio si poteva contrarre immediatamente conla sola condizione che, qualora entro i predetti trecentogiorni, fosse nato un bambino, questo doveva considerar-

si figlio del defunto.Nel frattempo l’orto era

stato abbandonato a sestesso, le erbacce lo stava-no infestando, le pianticel-le stentavano a crescere.Un provvidenziale acquaz-zone, seguito da un caldorigenerante, fece rinvigori-re meravigliosamente l’or-to, tanto che i due sposiprevidero un raccolto ecce-zionale. Quando, poi, i po-modori, le zucche, le me-lanzane, i peperoni e le an-

gurie iniziarono a ingrossare e a suscitare la meraviglia deivicini e dei passanti, i due sposi decisero di non limitarsi asporadiche visite di controllo, ma di stabilirsi definitiva-mente nel campo, al fine di evitare eventuali furti.

Il giovane sposo, allora, realizzò, nel punto centrale delpodere, una “pagghiara” (un pagliaio), dalla quale si pote-va controllare l’intera zona.

In quel piccolo ambiente i due coniugi vissero giorno enotte per tutta l’estate, senza mai abbandonarlo un soloistante per non vanificare ogni attesa. Nella pagghiara i dueavevano fissato la propria dimora, confortati soltanto daiservizi necessari alla famiglia: due conci di tufo su cui ap-poggiare la “pignata” o la “firsòra”, sotto alla quale si ac-cendevano dei rami secchi per cuocere i cibi, una fossarudimentale ove compiere i bisogni più intimi, la “menza”

18 Il filo di Aracne settembre/ottobre 2010

C’ERA UNA VOLTA...

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e lu “mbile” (recipienti) per conservare l’acqua, una botti-glia di vino, una di olio, una sacchetta appesa quanto piùin alto possibile, dentro cui era custodito il pane, lontanoda mosche, lucertole e formiche.

Nel piccolo podere, lavorando duramente per diverseore al giorno, sotto i raggi martellanti e implacabili del so-le estivo, i due vivevano una vita meravigliosa fatta di su-dore e di tanto amore.

E intanto le piante crescevano e mettevano in mostra ifrutti della loro breve esistenza. Troppi occhi estranei, pe-rò, ogni giorno puntavano sempre più vogliosamente losguardo verso quelle succulente e invitanti leccornie.

Ci fu chi organizzò con inganno un furto a regola d’arte.Una notte, mentre i due coniugi dormivano profonda-

mente nella pagghiara, alcuni ladri scesero da due traini e,dopo aver superato il piccolo steccato, s’intrufolarono fur-tivamente nel podere. Uno di questi raccolse una grossazucca e con un coltello la svuotò dei semi e della polpa; poiintagliò gli occhi, il naso e la bocca con la perizia di un pro-vetto artigiano. Accese una grossa candela e la inserì nel-l’interno, simulando il volto di una strega o di unfantasma. L’uomo cominciò a dondolarla fra le mani e aemettere con la bocca strani suoni, mentre intanto si diri-geva lentamente, seguito dagli altri ladri, verso la capan-na. Dopo qualche minuto i due coniugi avvertirono unavoce cavernicola che sembrava giungere dall’oltretomba.

Preoccupati, si vestirono in tutta fretta, si affacciarono al-l’esterno della pagghiara e, sorpresa delle sorprese, viderouna testa illuminata ondeggiare lentamente e sempre piùavvicinarsi alla capanna. Quando ormai era giunta a pochimetri da loro, ai due sembrò certo che si trattasse di un te-schio umano illuminato dall’interno. I coniugi rimaserosenza parole per qualche attimo; non sapevano cosa fare,

anche perché pietrificati da quell’immagine terrificante.Tutto a un tratto “la capu ti muertu” (la testa di morto) smi-se di ondeggiare e di lanciare suoni lugubri e iniziò a par-lare, mantenendo alla voce un tono cupo e profondo.

“Io so’ lu pathrunu ti l’uertuno’ mi l’àggiu cututu de vivu

mo’ ‘ògghiu mi lu cotu de muertu!”1

Quella voce lugubre non poteva che appartenere al pri-mo marito, il quale era venuto a vendicarsi con i due: conla moglie, che aveva osato tradirlo subito dopo la sua mor-te, e contro chi gli aveva usurpato il posto accanto alla suaex-donna, appropriandosi del raccolto, frutto dei suoi sa-crifici. Quindi, non c’era alcun dubbio: quella “capu timuertu” apparteneva al fantasma del primo marito e quel-la era la sua voce, che intimava perentoriamente ai due fe-difraghi di allontanarsi da quel posto.

Marito e moglie si guardarono terrorizzati per alcuniistanti negli occhi e, senza proferire parola alcuna, se la die-dero a gambe levate, maledicendo “l’uertu e cinca l’erachiantatu” (l’orto e chi lo aveva piantato).

Mentre i due lasciavano precipitosamente il podere, i la-dri continuavano a ripetere il ritornello con voce semprepiù alta e profonda.

Una volta al sicuro, i marioli fecero man bassa di tuttoquel ben di Dio, caricandolo sui traini.

Sulla via del ritorno, ormai contenti per il colpo riuscito,uno di loro si mise a cantare.

“Io no’ so’ lu pathrunu muertuma so’ queddhru ca si mangia l’uertu!”2

1.“Io so’ lu pathrunu… - “Io sono il proprietario del podere / non me losono goduto da vivo / voglio godermelo da morto”.2.“Io no’ so’ lu pathrunu… - “Io non sono il proprietario morto / mason quello che si mangia l’orto”.

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Nel 2002 il compianto Zeffirino Rizzelli all’internodi un articolo dedicato allo scultore galatinese Pie-tro Baffa (1885-1962) edito su «Il Galatino» solleci-

tava uno «studio monografico, la messa apunto di un catalogo critico delle opere el’organizzazione di una mostra. Il tutto al-meno perché anche le presenti generazio-ni abbiano conoscenza della “Galatinascomparsa” e prendano coscienza di unarealtà culturale che ha fatto grande la no-stra Città». Nel maggio scorso, con il vo-lume Pietro Baffa, una vita per l’arte e lamostra di sculture e disegni, allestita ne-gli spazi del Museo Civico “Pietro Cavo-ti”, Salvatore Baffa, figlio di Pietro e primosostenitore dell’iniziativa, e DomenicaSpecchia, nelle vesti di autrice, colgonoquell’invito pubblicando la prima mono-grafia dedicata all’artista.

Pietro Baffa, dopo gli studi presso il Regio Istituto Arti-stico Industriale “G. Toma” di Galatina, nel 1911 migra aRoma alla ricerca di nuovi stimoli; frequenta i corsi di pla-stica del Museo Artistico Industriale (M.A.I.) e, visitandocon assiduità il giardino zoologico, inizia a interessarsi al-la tematica che ha poi caratterizzato buona parte della suaattività. Nel 1914, al termine degli studi, si trasferisce a Na-poli dove insegna per cinque anni presso il Regio MuseoArtistico Industriale e stringe amicizia con artisti e intel-lettuali, tra questi:Lionello Balestrieri eSalvatore Di Giaco-mo. Al 1920 risale ilritorno nel Salento;vince il concorso allacattedra di Plasticapresso il Regio Istitu-to Artistico di Lecce,partecipa alle piùqualificate rassegned’arte, dalle biennalileccesi alle mostregallipoline, con alcu-ne partecipazioni a

rassegne extraregionali come la Quadriennale di Torinodel 1923. Nel corso degli anni frequenta personalità di spic-co dell’ambiente artistico salentino, tra gli altri: Agesilao

Flora e Geremia Re; stabilisce, altresì, unsodalizio con Antonio Bortone e AntonioD’Andrea, con i quali collabora in più oc-casioni negli anni trenta. Non manca poidi guidare una gremita schiera di allievi,tra questi Alberto Petrelli, Leonzio Man-gione e Vittorio Vogna che in una cartoli-na spedita da Napoli nel 1935 lo definisce«mio caro maestro».

Il volume Pietro Baffa, una vita per l’ar-te edito dall’Editrice Salentina colma inuna certa misura il vuoto storiografico sul-l’artista, una delle personalità più autore-voli del panorama artistico di Terrad’Otranto a cavallo tra gli anni venti equaranta, ma poi obliata, così come tantealtre, in attesa di nuovi riordini storico-cri-

tici. Massimo Guastella, a tal proposito, in un suo recente«compendio» dedicato alle vicende della scultura in Terrad’Otranto a cavallo tra Otto e Novecento – in cui un pas-saggio è dedicato allo stesso Baffa – non ha mancato di sot-tolineare che «quanto più gli ambiti geografici si fannoperiferici tanto più le indagini su singole esperienze del-l’arte plastica difettano di un’organica ricomposizione de-gli scenari del gusto e della committenza in relazione aldibattito artistico nazionale e internazionale».

Il volume di Do-menica Specchia,introdotto da unapremessa a firmadello scultore Alfre-do Calabrese, siapre con due contri-buti dedicati, ri-spettivamente, allavicenda biografica ealla poetica dell’ar-tista. Qui l’autrice –già Docente di Sto-ria dell’arte nel-

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ARTISTI SALENTINI

Pietro BaffaPietro Baffau n a v i t a p e r l ’ a r t e

di Lorenzo Madaro

Trapani - Palazzo delle Finanze - Lunetta decorativa (1923)

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l’Istituto d’Arte “G. Toma” di Galatina – senza rinunciarea citazioni che vanno da Diderot ad Apuleio, passando perWilde, pone fondatamente l’accento sulle varietà di temiche hanno interessato l’artista nel corso delle sue ricerche.Dagli “Studi dal vero” di piante e animali, all’interesse peri motivi plastico-ornamentali antichi, fino ai ritratti, ai te-mi religiosi, ai paesaggi e a tutto quel filone animalier chelo rende un caso quasi unico nel pur vasto e articolato pa-

norama della scultura dell’Otto e Novecentodel meridione d’Italia. Numerose sono le ope-re, provenienti quasi esclusivamente dalleraccolte degli eredi dell’artista, pubblicate sul-

la monografia; alcune sono però sprov-viste di datazione e questo, proba-

bilmente, è additabile al fatto chequello di Domenica Specchia è,

appunto, solo l’avvio di unriordino del corpus delle ope-

re del Baffa, che potrà me-glio articolarsi e ap-

profondirsi in futurocontestualizzandolo

con lo scenario del territoriojonico-salentino.

L’autrice predilige soffer-marsi inoltre sui sentimentiche hanno animato le operedell’artista galatinese e su tut-ti quegli aspetti, dall’amoreper l’arte all’«ansia crescente

della ricerca», che a suo dire hanno caratterizzato l’opera-tività di Baffa. Rinuncia poi a citare gli interessanti giudi-zi – a firma, tra gli altri, di Pietro Marti, Amilcare Foscarinie Charles Julie Vildrac – che, sin dalla metà degli anni ven-ti, hanno accompagnato la sua operatività; questi risultano,invero, nodali per comprendere la “fortuna critica” di cuil’artista godeva in vita; ma su questi fondamentali aspettisi potrà tornare in un secondo momento.

Il volume si caratterizza anche per l’interessante appen-dice documentaria – diplomi, fotografie, alcuni stralci di ar-ticoli giornalistici e qualche lettera – che testimonia, sia purparzialmente, della sua vicenda biografica e/o artistica.

Certamente Pietro Baffa, una vita per l’arte è un primoutile contributo che apre la strada a nuovi studi sulle tan-te sfaccettature che hanno caratterizzato l’eclettica attivitàdello scultore all’interno della vicende storico artistichedella prima metà del Novecento nell’Italia medidionale. •

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Baccanale, gesso patinato (1928)

Bozzetto per il monumento a Giuseppe Pellegrino(1932) su disegno di Antonio Bortone

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Ricordo che da ragazzini si gioiva immensamentequando, dopo aver subito un torto, la fortuna provve-deva a punire nella giusta misura colui che lo aveva

procurato. Si diceva, in perfetta e inflessibile lingua dialet-tale, Lu giustu paca Ddiu! (Dio premia il giusto). L’onta eracosì lavata e il danno patito giustamente compensato.

Qualcosa del genere accadde nel lontano 1966. La squa-dra di calcio del Galatina, dopodue sfortunati spareggi disputa-ti contro il San Crispino (squa-dra marchigiana di PortoSant’Elpidio), terminati entram-bi in parità, conobbe l’atroceamarezza della retrocessione nelcampionato di Promozione pervia di una vendicativa moneti-na.

Ma, vendicativa di che?Seguitemi pazientemente nel-

la descrizione.Esattamente un anno prima

(campionato di calcio 1964-65),il Galatina, al termine di un sofferto ma vittorioso torneo,fu costretto a disputare lo spareggio contro la vincitricedell’altro girone di Prima Categoria pugliese per stabilirela squadra da promuovere in serie “D”. Si tenga conto chela serie “D” di allora corrispondeva all’attuale Seconda Di-visione Nazionale.

Andiamo avanti per gradi.Il campionato di Prima Categoria si dimostrò molto dif-

ficile per via della presenza di una squadra agguerrita (for-se anche migliore della nostra), qual era il Martina, cittàdai passati calcistici gloriosi. Il girone di andata si conclu-se con la squadra tarantina al comando con un punto divantaggio sui biancostellati. Nella seconda parte del cam-pionato, dopo alterne vicende, il Galatina superò i bianco-azzurri martinesi e si avviò a vincere il torneo, ma un’inopinata sconfitta in quel di Aradeo consentì ai nostriacerrimi rivali di sopravanzarci in classifica. Solo all’ultimagiornata, grazie alla vittoria dei galatinesi a FrancavillaFontana (2-1) e all’imprevedibile sconfitta dei martinesi aSan Pietro Vernotico (2-1), i biancostellati vinsero definiti-vamente il campionato.

Superata questa prima difficoltà, si doveva ora sconfig-gere il Conversano, vincitore del girone A di Prima Cate-goria pugliese.

Lo spareggio di andata si disputò a Galatina alla presen-za di una cornice di pubblico delle grandi occasioni. Vin-cemmo la partita grazie ad un bel gol realizzato dall’aladestra Mario Giunta, scomparso una decina di anni fa.Purtroppo, nella partita di ritorno, nonostante un’ottima

prestazione dei nostri calciatori,perdemmo la partita per 1-0 (goldi Lobascio). Tutto vanificato.

La domenica successiva (si eragià entrati nel mese di giugno)fu disputata a Taranto (vecchiostadio) la partita di spareggio.Anche se privo del portiere tito-lare Malacari (in porta vi era ildisattento Barlè) e di qualche al-tra pedina importante, il Galati-na aggredì sin dall’iniziol’avversario, surclassandolo inogni zona del campo. Segnò il

funambolico Brunetti grazie ad una rete da manuale. Nelsecondo tempo, i nostri calarono un po’ di tono (il caldoquasi estivo si fece sentire), lasciando il pallino del gioco aiconversanesi. Sul finire del secondo tempo il solito Loba-scio, dopo essersi incuneato nella difesa galatinese, segnòil gol del pareggio dei baresi. Punto e daccapo.

Il secondo spareggio fu disputato sul campo di Brindisiuna settimana dopo. L’intera tribuna era gremita da tifosigalatinesi (quasi duemila), mentre agli ospiti, un po’ menonumerosi ma alquanto vivaci, fu assegnata la gradinata.

All’inizio fu il Galatina a menar le danze, grazie alle in-venzioni di Brunetti e Magaletti, ma la difesa avversaria,un po’ con fortuna (furono colpiti due legni) e un po’ perbravura, riuscì a farla franca. Nel secondo tempo il ritmodel gioco andò scemando: entrambe le squadre avevanopaura di perdere. Intorno alla mezz’ora, l’arbitro concesseun sacrosanto rigore in favore dei galatinesi per un fallo digioco a danno dell’imprendibile Brunetti. Il gol fu realizza-to da Giunta. Quando ormai tutti pensavano di aver vintola partita e guadagnato la tanto agognata promozione inSerie D, arrivò la doccia fredda del pareggio, che, guarda

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EVENTI SPORTIVI STRAORDINARI

La fortuna è cieca e pazza… ma, se si mette a ragionare, diventa giusta

SU E GIÙ CON... SU E GIÙ CON... LA MONETINALA MONETINA

Quarantacinque anni fa l ’US Galat ina fu promossa in Quarta Ser ie, dopo quattro este-nuant i spareggi con l ’US Conversano, graz ie a l la benevolenza d i una… monet ina. Al termine del successivo campionato, retrocesse per v ia di una dispettosa… monet ina.

di Mauro De Sica

U.S. Galatina - campionato 1964/65

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guarda, fu siglato dal bravo Lobascio. Sulla tribuna del“Fanuzzi” scese un gelo artico, mentre in gradinata esplo-se il tifo barese.

A quei tempi, la lotteria dei calci di rigore non eraancora in vigore, per cui l’arbitro procedette,secondo il regolamento, al lancio della mo-netina per stabilire la squadra vincente.

I galatinesi e i conversanesi seguiro-no con trepidazione quel fatidico lan-cio. In quei frangenti nello stadiocalò un silenzio sovrumano. Ho an-cora negli occhi quella monetina che,giravoltolando per l’aria, cadde im-placabile sul terreno, dopo attimi chesembrarono un’eternità. Il cuore di tut-ti era a mille, al massimo della sopporta-zione umana. Tutt’ad un tratto, vedemmoMagaletti (il capitano) spiccare un salto incre-dibile: era il segnale inequivocabile che la sorte c’erastata benigna. Scene inenarrabili di gioia in tribuna;forte delusione e smarrimento totale in gradinata.

Al rientro a Galatina, la carovana dei tifosi invase le duepiazze principali tra il tripudio generale e lo sventolio dinumerose bandiere. La processione del “Corpus Domini”,che nel frattempo stava transitando nel centro della città,dovette fermarsi, per poi cambiare itinerario.

Nel campionato successivo fu approntata una squadradi tutto rispetto per disputare un torneo senza patemid’animo. Furono acquistati valenti calciatori, come Meda-gli, Cucurachi, Giardino, Montelli, Paolinelli, Basso, Con-te e, su tutti, la mezzapunta Fernando Scarpa (negli annisuccessivi andò a giocare nella Sambenedettese e poi nelPotenza). L’allenatore Cillo fu sostituito con il più espertoFusco. L’inizio non fu dei migliori, ma nel corso del giro-ne d’andata la squadra si riprese bene e si piazzò nella zo-na mediana della classifica. Il girone di ritorno fu disputatotra alti e bassi sino a poche giornate dal termine. Comun-que la posizione in classifica non era allarmante, ancheperché ci dividevano cinque-sei punti dalla zona calda.

Nel mese di aprile fu giocato allo stadio dei Diecimila underby di fuoco contro i cugini del Novoli, con i quali noncorreva buon sangue. Infatti, nella partita d’andata, i bian-costellati furono malmenati sia in campo che sugli spalti.Alcuni tifosi galatinesi esagitati giurarono vendetta nellapartita di ritorno. Così fu. Mentre la squadra ospite facevaingresso nella struttura dello stadio, un gruppetto di tifo-si aggredì a calci e pugni alcuni calciatori novolesi, due deiquali riportarono fratture al setto nasale e agli zigomi. Lapartita iniziò con qualche minuto di ritardo, ma il Novolidovette schierare una formazione di nove calciatori. Lapartita fu vinta dai biancostellati per 2-0, ma, in seguito, ilrisultato fu ribaltato in favore degli ospiti. Il Galatina, pur-troppo, oltre a perdere l’incontro a tavolino, fu penalizza-to di due punti in classifica. Il provvedimento disciplinarecomportò la caduta della squadra nelle zone basse dellaclassifica. Nelle restanti partite i biancostellati non riusci-rono a venir fuori dalla posizione critica. A fine campiona-to il Galatina si piazzò al terzultimo posto in coabitazionecon il San Crispino. Pertanto si rese necessario lo spareggio

per decidere la retrocessione. I galatinesi erano molto fi-duciosi, anche perché l’anno precedente avevano vinto(con fortuna) gli spareggi contro il Conversano.

La partita fu disputata a Cerignola. Nonostante lagrande distanza, ci furono molti tifosi bianco-

stellati al seguito della squadra. Il risultatofu di 1-1, con rete iniziale dei galatinesi e

pareggio dei marchigiani nei minuti fi-nali.

Il successivo incontro si disputò aTermoli (si era già nel mese di giu-gno). Anche qui i tifosi accorsero ingran numero e con tante speranze nel

cuore. Andarono in vantaggio i bianco-stellati, poi ci fu il pareggio marchigia-

no. Nel secondo tempo Magaletti riportòi galatinesi in vantaggio, ma, ahinoi, ad una

manciata di secondi dal fischio finale, arrivò ladoccia fredda del pareggio.Tutti a centro campo e lancio della monetina. Sta-

volta, purtroppo, la sorte ci volse le spalle, premiando gliazzurri di Porto Sant’Elpidio.

Tike, la dea greca della fortuna, fu costretta a non favori-re ulteriormente i biancostellati, forse perché saggiamenteconsigliata da Dike, la dea della giustizia, e da Nike, la deadella vittoria, a dare equità alle fortune degli umani.

La famosa “legge del contrappasso”, cara agli dei dell’an-tica Grecia e di Roma, e ripresa più volte da Seneca e daDante Alighieri, ancora una volta, aveva colto nel segno! •

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Tike

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La chiesa di Santo Stefano (XIV-XV sec.) sorge nel cen-tro di Soleto, capoluogo in epoca angioina della con-tea di Raimondo del Balzo de Courthezon, poi di

Nicola Orsini e, fino al 1406, di Raimondello Orsini del Bal-zo. La contea era unitariamente cir-coscritta, con i corpi feudali diSoleto, Galatina, Sternatia e Zollino,in una vasta coinè grecanica allo-glotta di tradizione bizantina, oggiridotta ad un’enclave conosciutacome Grecìa Salentina, situata a suddi Lecce, nel cuore del Salento.

Lo scenario artistico del distrettocomitale era stato profondamenteinfluenzato dal grandioso cantieretardogotico di Santa Caterina di Ga-latina e dal tempietto stefaniano so-letano, entrambi allestiti dalconte-principe Raimondello sul finire del Trecento.

Di grande interesse risultano gli affreschi che copronointeramente le pareti della chiesa. Nella prima fase il pitto-re del Trecento - chiamiamolo così essendo anonimi i fre-scanti -, riconducibile ad una bottega di artisti locali,epigoni dei noti pittori soletani Nicola e il figlio Demetrio,confermò la tradizione pittorica bizantineggiante di Sole-to, soprattutto nel catino absidale, in cui è raffigurato, alcentro, il Cristo Sapienza e Verbo di Dio e in altricartoni campiti sulla fascia inferiore delle pare-ti. Quest’ultimi, intorno al 1420, probabilmentesu commissione della contessa-regina Mariad’Enghien, già vedova di Raimondello e poi dire Ladislao, furono integrati da una nuova teo-ria di santi stanti, vere colonne della chiesa. Die-ci anni dopo, ma entro il 1430, sui registrisuperiori, privi di immagini, vennero allestiti ilCiclo cristologico (parete settentrionale); l’Ascen-sione e la Visione dei profeti (parete absidale); laVita e martirio di Santo Stefano (parete meridiona-le).

Ma è soprattutto il Giudizio universale, affre-scato sul muro di controfacciata, ad attirare lanostra attenzione, in particolare i dannati dell’Inferno cheaffollano le bolge infernali e che diavoli mostruosi, tenen-doli sulle spalle, accompagnano in un macabro corteo finoa gettarli nelle voragini infuocate. Sono rappresentati nu-di, senza capelli e in maniera anonima e seriale. E’ eviden-te che all’ideatore del Giudizio universale non interessava la

resa fisionomica dei peccatori, quanto la rappresentazionedei loro peccati.

Tra gli eresiarchi e i dormiglioni della domenica figurano,quindi, alcuni lavoratori riconoscibili dalle didascalie gre-

che che li accompagnano e dagli arnesi del loro me-stiere, evidenziati in primo piano. Tutti sonocondannati per l’uso illecito e fraudolento delle lo-ro attività: così il taverniere, con la brocca di vino inmano, per aver frodato sulla qualità del vino; l’usu-raio, rappresentato con la borsa dei denari, per i fa-cili guadagni ottenuti con la pratica feneratizia; ilmacellaio, con la bilancia falsa, strumento della suafrode; il giudice, per le sue sentenze inique; il sarto,identificato dalle forbici, per aver ingannato i clien-ti sulla qualità dei tessuti. Maria d’Enghien, minac-ciando pene severe, li diffidava dal “vendere perragusini, panni vicentini o veneziani o veronesi”.

E poi ancora lo zappatore, che spesso ingannava iproprietari terrieri rubando i prodotti della campagna ospostando i confini durante la zappatura; il muratore, che avolte lucrava sui materiali e sulle prestazioni professiona-li ed altri peccatori condannati per furto e frode.

Si ha l’impressione, tuttavia che il Giudizio universale diSoleto non sia stato propriamente giusto nella distribuzio-ne del premio e del castigo. Tra le fiamme dell’Inferno, in-fatti, non troveremo nessun chierico, monaco, vescovo,

cardinale, papa, re oregina pur presenti inaltri Giudizi universali(per esempio quelli diGiotto o del BeatoAngelico), ma solo ar-tigiani, contadini,funzionari, colpevolidell’uso fraudolentodel loro mestiere econdannati, per usareuna felice espressionedi Chiara Frugoni,per sempre, “a lavo-rare all’inferno”.

Chi sono gli altri artigiani divorati dalle fiamme nell’In-ferno di Soleto? Per saperlo, o ci si reca personalmente nel-la graziosa chiesetta soletana, o ci si affida, se mi si passala pubblicità affatto occulta, all’ultimo mio lavoro sull’ar-gomento, il volume La chiesa di Santo Stefano di Soleto, fre-sco di stampa per conto di Congedo Editore di Galatina. •

settembre/ottobre 2010 Il filo di Aracne 25

ARTE SACRA

Soleto - Chiesa di S. Stefano - Il taverniere

LAVORARE ALL’INFERNOI dannati nel Giudizio universale

affrescato nella chiesa di Santo Stefano di Soleto

di Luigi Manni

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Ho il piacere di annunciare a tutta la comunità citta-dina (e non solo) che le attività dell’Università Po-polare “Aldo Vallone” di Galatina (anno acca-

demico 2010-2011) ricominciano a pieno ritmo, secondo ilcalendario pubblicato nella pagina a fianco. Dico che è unpiacere, perché, finita la lunga estate salentina fatta di cla-mori e di eventi, all’approssimarsi dell’autunno i nostripaesi sembrano piombare improvvisamente nel silenzio,come se tutte le energie fossero state profuse durante i me-si estivi e non fosse rimasta più la forza per fare nulla.L’Università Popolare, allora, rompe questo silenzio e dàvita a una serie di lezioni e di attività che accompagneran-no i cittadini fino alla primavera inoltrata.

Ancora una volta è necessario ripetere che l’UniversitàPopolare di Galatina è un’associazione aperta a tutti, ovve-ro a tutti i mestieri, le professioni, le età, gli individui, e so-prattutto – qualcuno, infatti, sembra non averlo capito –che non è un ghetto di anziani. Secondo la nostra conce-zione delle età della vita, l’anziano, quando non sia il vec-chio malvissuto di manzoniana memoria, è il principaleinterlocutore del giovane, cui fornisce, con la sua esperien-za, esempio e indirizzo di vita. Come potrebbe accadereciò se tra giovane e anziano (ma intendi: tra tutte le età del-la vita) non corresse uno stretto rapporto?

Nessuna barriera, dunque, deve separare gli individuigli uni dagli altri, se non quell’abisso che naturalmente di-vide coloro i quali riconoscono e apprezzano i valori dellacultura da quelli che invece non li riconoscono e non li ap-prezzano. Ora, non chiedetemi che cosa intendo per “va-lori della cultura”, perché il direttore di questa rivista miha intimato di essere breve. Ma sono certo che intelligentipauca e che, dunque, non c’è bisogno di appulcrar parole.

Non solo l’Università Popolare è un luogo di elaborazio-ne culturale che coinvolge tutti, ma altresì la sua vocazio-ne non potrà che indirizzarla in particolare verso il mondodella Scuola, cui la nostra Associazione guarda con atten-zione, sollecitando quell’apertura al territorio che è sullabocca di tanti operatori scolastici, ma poi, se si bada ai ri-sultati effettivamente raggiunti, rimane sempre letteramorta. Già l’anno scorso questa apertura al mondo dellaScuola ha dato ottimi risultati, stando alla partecipazionealle lezioni di numerosi studenti e docenti di varie scuole.Ora si tratta di proseguire su questa strada.

Quest’anno l’Associazione mette a disposizione di tutti,per qualunque informazione sull’Università Popolare (e

non solo), un nuovo sito, cui si potrà accedere digitandowww.unigalatina.it. In esso è nostra intenzione raccoglie-re le lezioni e i contributi che gli studiosi nostri ospiti e no-stri amici vorranno donare per la pubblica utilità.Consultatelo, dunque, e fateci pervenire i vostri consigli.

Infine i ringraziamenti: innanzitutto ai monaci della Ba-silica di Santa Caterina d’Alessandria, nella persona di Pa-dre Massimo, che ci hanno concesso l’uso della Sala diCultura Francescana, dove quest’anno si terranno le lezio-ni dell’Università Popolare; e anche alla Dirigente del I Cir-colo Didattico di Galatina, dott.ssa Anna Antonica, che conla sua solita gentilezza, ospiterà per il secondo anno con-secutivo alcune attività dell’Università Popolare.

Bene, è tempo di andare a lezione. Auguro a tutti un se-reno anno accademico. •

26 Il filo di Aracne settembre/ottobre 2010

ASSOCIAZIONI CULTURALI

Riprendono le lezioni dell’Università Popolare “Aldo Vallone”

L’Università per tutte L’Università per tutte le età della vitale età della vita

di Gianluca Virgilio

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UNIVERSITA’ POPOLARE "Aldo Vallone" GALATINAUNIVERSITA’ POPOLARE "Aldo Vallone" GALATINAAnno Accademico 2010 - 2011

P R O G R A M M AP R O G R A M M A

settembre/ottobre 2010 Il filo di Aracne 27

Martedì 26 ottobre 2010 – ore 18,00

INAUGURAZIONE DELL’ANNO ACCADEMICO 2010-2011INAUGURAZIONE DELL’ANNO ACCADEMICO 2010-2011SEDE - SALA DI CULTURA FRANCESCANA - PIAZZETTA ORSINI - GALATINA

Relatore: Antonio Prete, “Sui Fiori del male di Baudelaire: traduzione e interpretazione”.

NOVEMBRE 2010NOVEMBRE 2010

Lunedì, 08 – ore 18,00 Relatore: Lucio Antonio Giannone: “Vittorio Bodini fra Sud e Europa” (nell’ambitodella Rassegna “Ottobre piovono libri”, in collaborazione con la Biblioteca Comunale“Pietro Siciliani”).

Mercoledì, 10 – ore 18,00 Relatore: Maria Rosaria Cafaro: “La Controriforma del Diritto del lavoro”.

Lunedì, 15 – ore 18,00 Relatore: Antonio Monte: “Che cos’è l’Archeologia industriale”.

Mercoledì, 17 – ore 18,00 Relatore: Giuseppe Serravezza: “La prevenzione dei tumori, tra mito e realtà”.

Lunedì, 22 – ore 18,00 Relatore: Gino Pisanò: La “Vita Nova” di Dante.

Mercoledì, 24 – ore 18,00 Relatore: Stella Fanelli: “Non è l’ottimo artista…”: il platonismo estetico-erotico di Michelangelo.

Lunedì, 29 – ore 18,00 Relatore: Antonio Marzo: “Inferno XXXI: tra i giganti”.

DICEMBRE 2010DICEMBRE 2010

Mercoledì, 1 – ore 18,00 Relatore: Rino Duma: “Il brigantaggio prima e dopo l’Unità d’Italia”.

Lunedì, 6 – ore 18,00 Relatore: Arrigo Colombo: “La costruzione della società di giustizia”.

Lunedì, 13 – ore 18,00 Relatore: Rosa Dell’Erba: “L’attività di Agesilao Flora (pittore socialista) nel Salento”

Mercoledì, 15 – ore 18,00 Relatore: Matteo Dell’Olio: “Origini e storia del melodramma italiano”.

Lunedì, 20 – ore 18,00 Relatore: Antonio Montefusco: Le “Epistole” di Dante tra impegno politico e memo

ria dell’impegno.

CORSO DI MANIPOLAZIONE ARTISTICA DELL’ARGILLAMartedì 9 novembre 2010, presso i l I Circolo Didatt ico di Galat ina, avrà in iz io i l I I corso di manipolazione art ist icadel l ’argi l la tenuto dal prof . Vincenzo Congedo.Le lezioni s i svolgono dal le ore 16.00 al le ore 18.00. Per le iscr iz ioni r ivolgersi a l prof . Vincenzo Congedo nei g ior-ni d i lezione ( tut t i i martedì) .

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Chi di noi conosce veramente Raffaele Attilio Ame-deo Schipa, in arte Tito? Già sapere il suo vero no-me potrebbe essere considerata una curiosità, anche

per chi come noi proviene dalla provincia di Lecce e ben sache nella propria terra è nato e cresciuto uno dei tenori piùimportanti della scena musicale internazionale del vente-simo secolo. Anche la sua data di nascita costituisce unanotizia particolare: Tito nacque negli ultimi giorni del 1888,ma venne registrato nei registri anagrafici solo il 2 genna-io del 1889 per questioni di leva militare. Prima di diven-tare un tenore nazionalmente e universalmentericonosciuto dovette faticare per conquistare il suo postonel mondo poiché la sua voce, seppur perfetta nelle esecu-zioni di qualsivoglia brano, e caratterizzata da uno stilepersonale e riconoscibile, non era considerata bella. Il suotalent scout a Lecce fu il vescovo napoletano Gennaro Tra-ma, il quale probabilmente lo iniziò alla musica napoleta-na, della quale il tenore divenne un abile interprete.

Molti sanno che Tito ha vissuto per diversi anni, anche in

periodi differenti, negli StatiUniti, ma quanti conoscono isuoi esordi gloriosi in Spagna enel Sud America? E la sua com-promissione con Al Capone, icoinvolgimenti politici che loportarono ad essere accusato difilocomunismo in Unione So-vietica e di filonazismo? Moltiprobabilmente, al contrario,avranno certamente avuto noti-zia dei suoi due matrimoni eavranno anche intuito la suapredisposizione ad essere unfugace amante, oltre che unbravo sperperatore degli alticompensi ricevuti per la suameravigliosa arte esibita neiteatri più famosi del mondo.

Anche solo cercando su Inter-net le esecuzioni musicali di Ti-to, ci si imbatte nei brani piùfamosi da lui interpretati, come“Una furtiva lagrima” o “I’ te

vurria vasa’”. Ma il tenore leccese è ricordato soprattuttoper aver magicamente fatto sue le opere Elisir d’amore, Wer-ther e Arlesiana, per le quali non è stato ancora trovato unsostituto degno di questo nome.

La sua eccezionale predisposizione per la musica lo por-tò anche a partecipare a musical, ad interpretare colonnesonore di film e a cimentarsi come attore, a progettare unascuola di canto che venne inaugurata a New York negli an-ni sessanta. Un artista dunque poliedrico e dalla carrieralunghissima: Tito infatti morì nel 1965 dopo ben 57 anni dipassione per la sua arte.

Di circa un mese fa la notizia della pubblicazione del-l’Opera Omnia di Tito in 31 cd a cura di Padre Richard D.Cantrell del Texas: per chi volesse quindi approfondire laconoscenza del nostro tenore più famoso al mondo, qualemigliore occasione! E per i più curiosi, anche il sito ufficia-le di Tito Schipa contiene delle chicche, tra cui una sezio-ne dedicata ad alcuni oggetti a lui appartenuti e scomparsida tempo che la famiglia spera, un giorno, di ritrovare…

Chi conosceChi conosceTito Schipa?Tito Schipa?

di Francesca Rinaldi

SALENTINI FAMOSI

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settembre/ottobre 2010 Il filo di Aracne 29

Le lampe (bicchieri da un quarto colmi di vino), rappre-sentavano il baratto privilegiato per pagare la com-missione della telefonata.

Ma anche alcune foglie secche di tabacco o un sacchetti-no di trinciato, insieme cu nnu pacchettu de cartine (pacchet-to di strisce rettangolari di carta velina, lunghe circa settecentimetri, bianche, sottili e trasparenti, gommate su unlembo del lato lungo e adatte per con-fezionare, al bisogno, sigarette artigia-nali) avevano lo stesso valore.

A volte l’esigenza di fumare (“misigge ‘na tirata”, ripeteva spesso luCheròndula) la avvertiva già prima ditelefonare, specialmente dopo averbevuto più di una lampa.

Serviva anche per darsi un tono eun contegno e con studiata teatralitàconfezionava, all’istante, una sigaret-ta fatta a mmanu (artigianale).

La procedura del confezionamentoera molto semplice, anche se bisogna-va avere una certa esperienza, unabuona perizia e una non comune do-se di abilità.

Prima estraeva dal pacchetto unacartina e la posizionava, leggermentearcuata per tutta la sua lunghezza, frail pollice e l’indice della mano sinistra,ai quali rimanevano strettamente col-legate le altre dita, piegate in dentro a mo’ di protezione.

Poi con la mano destra pizzicava del tabacco secco spricu-latu (sbriciolato), o del trinciato ricavato da foglie umidefinemente tagliuzzate, direttamente dalla tasca dei panta-loni, o dal taschino della camicia, o da un sacchetto di stof-fa, disponendolo in quantità sufficiente e distribuendoloin modo uniforme sulla cartina.

A questo punto subentrava la fase più delicata: inumidi-va leggermente, ma senza bagnarlo, uno dei bordi lunghidella cartina, passandolo delicatamente sulla punta dellalingua e immediatamente lo ripiegava su quello asciutto,arrotolandolo con una leggera pressione del pollice, aiuta-to dall’ indice e dal medio insieme, di entrambe le mani.

Eliminava, infine, qualche eventuale residuo di tabacco

dalle due estremità e la sigaretta era già bella e confeziona-ta, alla faccia dei Monopoli di Stato.

Cu nnu pòsparu a tàvula (un fiammifero di legno), sfrega-to sul muro e tenuto ben saldo fra l’indice e il pollice del-la mano destra, accendeva la sigaretta delicatamentesorretta fra le labbra, mentre riparava dal vento la tenuefiammella con la mano sinistra, portata vicino alla bocca e

arcuata a mo’ di schermo.Fra una boccata e l’altra, aspirava

voluttuosamente il fumo acre e bian-castro.

A volte lo arrotolava nella boccasocchiusa a semicerchio, riuscendoabilmente a formare sottili rotelle difumo.

Con sequenza concentrica il fumosaliva in alto, dondolando leggero etrasparente, mentre i cerchi si dissol-vevano nell’aria, creando, così, unadisincantata magia surreale.

Con malcelato sussiego, non privodi una certa affettazione di importan-za, si conferiva, in quel modo, un to-no presuntuosamente dignitoso ealtezzosamente sostenuto.

E in questa scenografia, così punti-gliosamente costruita, si inseriva latelefonata de lu Cheròndula.

La sua specialità, quasi un copyright,era quella fatta con l’Aldilà, o meju, cu lli morti toi (i tuoi pa-renti defunti).

Il suo cellulare, senza alcun limite di campo, poteva met-terti in contatto con chiunque e ovunque.

Il rituale della telefonata (quella più solenne era fattapreferibilmente in piedi), era molto semplice: lu Piethruz-zu si toglieva la coppula, riponendola nella tasca posterio-re dei pantaloni, e si addossava al muro di un vicinofabbricato.

Poi dava uno sguardo in giro con fare circospetto, comeper conferire più solennità al gesto che stava per fare.

Intanto spegneva la sigaretta, stropicciando la punta ac-cesa col pollice, l’indice e il medio; poi conservava accura-tamente lu muzzone (il mozzicone) nel taschino del gilet.

SUL FILO DELLA MEMORIA

Galatina - Chiesa della Purità

I racconti della Vadea

La telefonata

di Pippi Onesimo

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Insieme alla mano, che poggiava arcuata sul bordo delpadiglione auricolare, al fine di amplificarne la ricezione,accostava l’orecchio sinistro preferibilmente vicino a unacrepa o a una fessura, come quella usata per presa d’arianei cucinini o nei bagni di servizio delle vecchie abitazioni.

A volte, ma solo raramente, se era stanco o più spiritosodel solito, preferiva fare la telefonata sdraiato per terra, apancia in giù e a gambe divaricate, con l’orecchio legger-mente schiacciato su un tombino dell’acquedotto, o lieve-mente adagiato sul coperchio dellacondotta della fognatura bianca.

Gli spettatori, intanto, accostati almuro della Chiesa della Purità,prospiciente sull’ansa che si model-la fra l’Istituto Immacolata e il Pa-lazzo Vallone, dopo così lunga epaziente attesa, cominciavano a da-re segni di insofferenza per il no-ioso e snervante rituale dellapreparazione.

Ma era inutile spazientirsi.Al punto in cui si era arrivati, bi-

sognava prendere o lasciare, aven-do commesso l’imprudenza dipagare con largo anticipo la commis-sione.

Oltretutto l’ebbrezza dell’aleaticode lu Muscia, che aleggiava ancorasorniona su tutta la compagnia,non era definitivamente del tuttosvaporata, mentre il nervosismocominciava a prendere pericolosa-mente il sopravvento e… si rischia-va de ssire alle vigne de l’arciprevate (uscire fuori strada,scantonare, perdere il senno o la ragione ).

Lu Piethruzzu, vientu de nanzi e thramuntana de retu (im-perturbabile), continuava a prendersela comoda e, impas-sibilmente serafico, rimaneva accostato al muro.

Poi, dopo una ennesima pausa, finalmente, con un len-to, misurato atteggiamento pontificale allargava il bracciodestro, in uno studiato rituale scenico, per dare il segnaled’inizio.

Dopo aver chiesto e ottenuto il silenzio dei presenti, ro-teava freneticamente il braccio, piegato ad angolo retto,mentre teneva il pugno chiuso come se girasse la mano-vella di un vecchio apparecchio telefonico, di quelli che laSip usava allora installare, appendendoli al muro ad altez-za d’uomo.

Intanto imitava con leggeri, susseguenti, intervallati estudiati borbottii della bocca il rumore della sua suoneria.

Quindi, finalmente, esordiva: “Prontu, prontu… parlu culli morti de mesciu Ntoni Pizzicazzi?“ (pronto, pronto… par-lo con i defunti di maestro Antonio Pizzicazzi?, che era unodei committenti della telefonata, presente nel gruppo).

I soprannomi o le ‘ngiurie costituivano una anagrafe pa-rallela a quella ufficiale tenuta dal Comune e, a volte, lasuperavano per la particolarità dei dettagli e per la inap-puntabilità dei riferimenti storici e genealogici.

Infatti allora (più di oggi), esse identificavano con preci-sione quasi maniacale le famiglie galatinesi e, volendo, po-

tevano individuare, senza alcun margine di errore, tutta larelativa sthrappigna razza (la discendenza, l’albero genea-logico).

L’indicazione del cognome diventava superfluo, anziinutile.

Dopo una breve pausa, l’espressione del volto con gli oc-chi pensosi e semichiusi e la fronte corrucciata preannun-ciavano un improbabile contatto telefonico.

Poi proseguiva: ”Si... si sentìtime sanu: lu Ntoni, lu menza-nu de li frati vosci, vu manda a ddireca li mancati tantu e ca vulia tantu cubbu viscia” (“Si, si ascoltatemi conattenzione: Antonio, il medianodei vostri fratelli, vi manda a direche gli mancate tanto e che deside-rerebbe tanto rivedervi).

“Cce tt’hanu dittu“ (che ti hannodetto?), chiedeva mesciu Ntoni, fin-gendo di stare al gioco.

“Ca… se propriu cci tieni tantu culli vidi, cce spetti… cu bbai lli throvi!“(se ci tieni veramente tanto a ve-derli, sbrigati a partire e quindi a…morire!), era la impietosa rispostafulminante de lu Piethruzzu.

Tutti scoppiavano a ridere, tran-ne mesciu Ntoni, ca rrumania ‘mpa-latu (rimaneva di sasso).

Poi, riprendendosi dallo smarri-mento, lo rimproverava con tonobonario: “Naah ‘stu mucculone! (uo-mo di poco conto) Mo’ ti cazzu lempuddhre (adesso ti punisco). A

mmie, ca t’haggiu sempre crisciutu a muddhriculeddhre (con lebriciole), mi faci ‘sti scherzi!”

In altri termini gli traduceva, in modo paterno ma deci-so, il suo pacato risentimento: “Ingrato, non puoi mancarmidi rispetto, perché sono stato sempre generoso con te!“.

Lu Piethruzzu, impassibile, chiudeva il telefono (cioè ab-bassava il braccio e toglieva l’orecchio dal muro), mentresi copriva accuratamente il capo cu lla coppula, che recupe-rava dalla tasca dei pantaloni, dove l’aveva momentanea-mente riposta prima della recita.

Con tutta la calma serafica, che la solennità del momen-to imponeva, si concedeva una breve pausa, come se fos-se riportata sul copione di una fantasiosa sceneggiaturaimprovvisata, mentre aspirava con evidente e studiata vo-luttà un’altra boccata di fumo, dopo aver riacceso lu muz-zone, che aveva recuperato dal taschino.

Intanto la punta del mozzicone, tenuto in precario equi-librio fra le labbra ruvide e screpolate, a ogni tirata si arro-ventava a intermittenza, bruciando parte della cartina eparte del tabacco, mentre liberava nell’aria qualche breve,fugace favilla.

La cenere biancastra, man mano che il fuoco si ritiravaconsumando la sigaretta, si staccava a grumi compatti e,rotolando giù, pennellava impertinentemente il gilet e lasua camicia con una polverina sottile e irriverente.

Qui, la commedia della telefonata, ben assortita e otti-mamente interpretata, si concludeva. •

Galatina - Via Ottavio Scalfo

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L’azienda “Pietro De Pascalis s.r.l.”, situata nella zonaindustriale di Galatina a pochi chilometri da Lecce,con la sua cava che si estende su oltre 70 ettari, ope-ra sia nel settore pubblico che in quello privato: in par-ticolare, nella produzione dei calcestruzzi e deiconglomerati bituminosi e nella realizzazione di retiidriche e fognanti, di metanodotti, di opere stradali.Il fondatore, Pietro De Pascalis, ha iniziato la propriaattività nel lontano 1960 con l’estrazione della “Dolo-mia” di Galatina, una pietra che oggi viene impiega-ta ampiamente per il restauro dei centri storici.L’azienda ha sempre rivolto particolare attenzione aglistandard qualitativi infatti è stata fra le prime, nel set-tore edile, estrattivo e nella produzione di calcestruz-zi preconfezionati, ad aver conseguito la certificazionedi qualità ISO 9002 già nel 2000.Tale politica aziendale si è ulteriormente enfatizzatacon l’avvento delle nuove ISO 9001:2000, per com-pletarsi con il marchio CE degli aggregati destinati aconglomerati cementizi e bituminosi, e con la certifica-zione degli impianti di produzione dei calcestruzziconformemente al D.M. 14/09/2005.Nel 2009 la Pietro De Pascalis s.r.l. ha attivato la ex“Poliresine”, una fabbrica di tubi e raccordi in PVC,polipropilene e polietilene, ripristinando una impor-tante realtà produttiva del territorio salentino.

Una spettacolare panoramica della cava, dove di giorno si estrae, si seleziona e si trasporta il materiale

GALATINA (Lecce) C. da San GiuseppeZona industriale, S.P. 362telefono 0836.561112 fax 0836.561226

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