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Programma interuniversitario di Ricerca Scientifica COFIN 2004: “Le risorse lapidee dall'antichità ad oggi in area mediterranea: identità culturali e tecnologie. Sperimentazioni integrate per la conoscenza, restauro e valorizzazione” III INCONTRO – CONVEGNO DI MEDIO PERIODO LE PIETRE DEL TERRITORIO. CULTURA, TRADIZIONE, SVILUPPO SOSTENIBILEorganizzato dall’Unità di Ricerca 4 dell’Università di Torino, con la collaborazione della Fondazione Marenostrum Onlus (Carrara) Fortezza del Mare Umberto I Isola della Palmaria (SP), 17-18 ottobre 2005 Partecipanti: Università di Torino (organizzatrice, con Milano e Genova) Politecnico di Torino Università di Bari Università di Cagliari Università di Roma Università di Firenze (coordinatrice nazionale)

LE PIETRE DEL TERRITORIO. CULTURA, TRADIZIONE ... - UniFI › Prin2004 › _contents...il progresso scientifico di macchine e materiali, talvolta persino “anticipando tutti” se

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  • Programma interuniversitario di Ricerca Scientifica COFIN 2004:

    “Le risorse lapidee dall'antichità ad oggi in area mediterranea: identità culturali e tecnologie. Sperimentazioni integrate per la conoscenza, restauro e valorizzazione”

    III INCONTRO – CONVEGNO DI MEDIO PERIODO

    ““LLEE PPIIEETTRREE DDEELL TTEERRRRIITTOORRIIOO.. CCUULLTTUURRAA,, TTRRAADDIIZZIIOONNEE,,

    SSVVIILLUUPPPPOO SSOOSSTTEENNIIBBIILLEE””

    organizzato dall’Unità di Ricerca 4 dell’Università di Torino, con la collaborazione della Fondazione Marenostrum Onlus (Carrara)

    Fortezza del Mare Umberto I Isola della Palmaria (SP), 17-18 ottobre 2005

    Partecipanti:

    Università di Torino (organizzatrice, con Milano e Genova) Politecnico di Torino

    Università di Bari Università di Cagliari

    Università di Roma Università di Firenze (coordinatrice nazionale)

  • UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO

    DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELLA TERRA

    Prof. Mauro Fornaro

    Come tutte le cose di questi ultimi tempi, ogni nostra operazione rappresenta vieppiù una lotta contro il tempo: la realizzazione, la divulgazione e l’urgenza prepotente di nuovi impegni ed attività… Questo fascicolo non fa eccezione: dall’incontro in Palmaria erano ormai trascorsi più di sei mesi, con avvenimenti diversi, anche dolorosi ed inaspettati, ed ancora non si era potuto chiudere, mentre già si era alle prese con nuovi Cofin e vecchie scadenze dimenticate (o rimosse). Con la collaborazione di tutti e soprattutto di giovani “precari di ricerca”, ai quali vorremmo che il nostro “mondo universitario” non fosse in pratica precluso per tempi così lunghi – come oggi di regola, accade – ce l’abbiamo fatta anche questa volta, andando in copisteria all’ultimo momento e caricando le copie sull’ultimo traghetto… Il nostro SITO, “creato ed allevato” dai colleghi fiorentini, “svezzato” a Vicoforte l’anno passato, può ora dirsi accresciuto e già guarda ai prossimi contributi, maturati con l’attuale incontro in Sardegna, anch’essi vari ed interessanti per la ricerca nazionale congiunta, che si concluderà sostanzialmente prima a Canosa di Puglia e poi, formalmente, a Firenze. Speriamo, nel ricordo anche di cari Colleghi che non sono più con noi, nel tempo, tutto questo nostro “essersi dati da fare” lasci tuttavia più di qualcosa, nei risultati scientifici e tecnici ottenuti, nei rapporti collaborativi e cordiali fra le diverse Sedi, nel lavoro di squadra, svolto all’interno di ognuna di esse, nell’interesse che avremo comunque saputo suscitare a soprattutto trasmettere nelle diverse località in cui abbiamo avuto il piacere culturale di ritrovarci.

    Prof. Mauro Fornaro

  • Presentazione L’Unità 4 dell’Università di Torino, organizzatrice dell’incontro di medio periodo – dopo la riuscita manifestazione di Vicoforte, ospiti dell’Unità Politecnico di Torino – sulla ricerca di cui al titolo, ha ritenuto utile, su sollecitazione del Coordinatore Nazionale prof. Luigi Marino, raccogliere in un sobrio fascicolo i testi sintetici dei contributi scientifici presentati in forma di Poster, ad illustrazione dell’attività di ricerca svolta dalle diverse Unità Locali. Tali lavori sono esposti nelle rinnovate sale della Fortezza, ove intendiamo lasciarli – se possibile – quale testimonianza di un comune obiettivo: rendere partecipi i futuri visitatori di quest’imponente ed affascinante struttura, votata ora alla pace ed alla cooperazione internazionale, dell’importanza della pietra nello sviluppo sociale ed artistico delle Civiltà del Mediterraneo, con le sue antiche rotte commerciali, e con le tante città costiere, così ricche di storia e di opere monumentali. Si tratta di un’occasione, consentita dall’azione, ormai affermata, della Fondazione Marenostrum, di cui l’ing. Orlando Pandolfi è instancabile proponente ed ambasciatore. Tutti ci auguriamo che tale incontro, in questa ospitale sede, divenga nucleo permanente di cristallizzazione delle idee, nel campo dell’arte, della tradizione e della cultura lapidea, venendo però con sistematicità e frequenza d’uso, sempre arricchita dalle esperienze più diverse, accademiche, professionali, industriali e, naturalmente, turistiche, per le quali questi luoghi sono, in tutta evidenza, particolarmente votati e celebrati.

    Il coordinatore dell’Unità 4

    Prof. Mauro Fornaro Editing a cura di: Unità di Ricerca Locale 4 – Università di Torino prof. Mauro Fornaro e dott. Andrea Giuliani

  • Introduzione Le cave di materiali lapidei – quale tangibile filo di Arianna sul territorio, lasciato dal costruito dell’uomo e dai suoi monumenti nel tempo – meritano una attenta considerazione, non solo al fine di una identificazione dei siti estrattivi originari – anche attraverso il riconoscimento scientifico e l’attribuzione certa delle caratteristiche chimico-fisiche e minero-petrografiche dei materiali utilizzati – ma soprattutto della ricostruzione storica e georeferenziata di una attività tradizionale dalle riconosciute, profonde implicazioni sociali e culturali, con evidenti conseguenze economiche ed artistiche. È stato peraltro anche osservato (cfr. GEAM n.113, Dic. 2004) che la singola cava si potrebbe considerare, di per sé, quale impronta complessiva lasciata sul terreno dal materiale estratto, per le diverse opere e destinazioni; ed in certi casi è davvero rimasta, nella matrice rocciosa, la forma “negativa” dell’elemento stesso architettonico, sagomato e staccato dal monte quali colonne, obelischi ecc. Anche la espressione, usata da Michelangelo per indicare materialmente l’azione scultorea, “per forza di levare”, è stata talvolta iperbolicamente richiamata, a scala ben maggiore, riferendosi alle modificazioni paesaggistiche prodotte dall’uomo in certi bacini estrattivi della pietra, purtroppo non sempre con apprezzabili risultati globali di cui potersi compiacere. I molti accertamenti di cava del passato devono comunque portare, come osservato in avvio della ricerca, ed una riscoperta della memoria, entrando a far parte, con sistematicità di documentazione, di un più vasto “archivio del suolo” (id. GEAM 2004), anche per il fedele reperimento della pietra di edifici storici da restaurare e valorizzare. Una tale “riappropriazione” della risorsa, non solo culturalmente ma anche materialmente, presuppone tuttavia la capacità attuale di saper estrarre, entro certi limiti, in modo compatibile con l’ambiente che si è venuto a creare, concorrendo così alla “sostenibilità” per ogni eventuale intervento (Convegno “Sviluppo Sostenibile Delle Attività Estrattive: Ambiente e Sicurezza” Regione Lombardia, Novembre 2004)ed anzi cogliendo ogni occasione per un recupero conoscitivo e funzionale del territorio, nella sua complessità. In questa direzione, o per lo meno con questo spirito, sembra che si muovano oggi le diverse amministrazioni, a tutti i livelli e trasversalmente ad ogni schieramento politico. Dal principio contenuto nel DPAE (Documento Programmatico Attività Estrattiva) piemontese di fine anni ’90 (Conv. Int. “Quarry, Laboratory, Monument” Pavia, 2000), condiviso oggi da molte altre Regioni per la salvaguardia attiva dei siti storici delle cave di pietra, si è concordemente potuto passare a norme pianificatorie provinciali (PAEP) in linea con gli indirizzi regionali; adesso, e con crescente interesse, si riparla di pietre locali, avvertendo altresì la necessità di soddisfare correttamente i fabbisogni di tali litotipi – senza dover ricorrere ad estemporanee asportazioni di materiale da opere preesistenti, ancorché mal ridotte, a seguito di tali iniziative poco controllabili (cfr. GEAM, Marzo 2005) – attraverso finalizzati prelievi di cava. È per questo motivo che la Ricerca, da sviluppare secondo il progetto nazionale già descritto e, per certi aspetti, ormai ben avviato, deve assumere anche il carattere pratico di intervento, nelle diverse realtà e per le diverse situazioni locali affrontate dai vari Gruppi universitari, arrivando a proposte operative particolarmente qualificanti e con generale significato metodologico (cfr. GEAM, Giugno-Settembre 2005).

  • Il contributo Torinese

    La coltivazione delle “pietre” è condizionata (da sempre) da condizioni geogiacimentologiche (litostratigrafiche), morfostrutturali (coperture e giaciture) e logistiche (accessi e servizi) presenti. La tecnologia mineraria, che è in fondo lo strumento della tecnica estrattiva, ha, d’altra parte seguito il progresso scientifico di macchine e materiali, talvolta persino “anticipando tutti” se si pensa ad es. a talune innovazioni applicative notevoli (funi metalliche, in sostituzione dei canapi, cavalli vapore anziché animali ecc.) nate e/o sviluppate a scopi minerari, quando tale attività, di fondamentale importanza per la società – era, per così dire, “trainante” rispetto ad altri settori produttivi, fin dai tempi del “De Re Metallica”. Visite a musei minerari famosi, soprattutto nel Centro dell’Europa danno ragione storica di ciò, a dispetto di attuali cadute di interesse se non di oblio generale. La riscoperta delle attività del passato, neanche troppo antico, oggi perseguita in diversi campi e a vari livelli, rende giustizia alle generazioni che ci hanno preceduto e spiega il paesaggio che noi vediamo, per una “lettura”, come oggi si dice, del territorio più completa e consapevole e soprattutto un suo utilizzo più responsabile. In tale prospettiva si collocano iniziative, avviate un po’ ovunque nell’arco alpino, ma non solo, volte al mantenimento dei segni ed al recupero della memoria, nel complesso ambito per es. della valorizzazione turistica dei luoghi e della più ampia diffusione culturale sul territorio. Nel caso del Portoro – pietra di grande pregio estetico e celebrate applicazioni artistiche, anche in Paesi lontani – la relativa concentrazione delle risorse coltivate – tra arcipelago, costa e promontorio spezzino – si evidenzia, da un lato, l’opportunità di un recupero di qualche sito abbandonato troppo in fretta o troppo a lungo sfruttato, secondo altri punti di vista (oggi col senno di poi e limitandoci ad osservare certi luoghi fortemente compromessi diremmo “improvvidamente lasciati, in malomodo”) e, dall’altro, la necessità che almeno qualche cantiere, nelle condizioni più favorevoli, giacimentologiche (di materiale) e topografiche (di accesso) rimanga in attività per una produzione, con mezzi e tecniche moderne, “sostenibile” ossia compatibile con l’ambiente, sicura per le persone, economica per le aziende. In tale quadro, la ricerca Cofin ministeriale, a cui l’Unità dell’Università di Torino, facendosi portavoce anche dei colleghi delle Università di Milano Bicocca e di Genova, ha aderito con energica convinzione, insieme al vicino Gruppo operativo del Politecnico, assume un carattere di indubbia attualità ed urgenza, di fronte alle prospettive aperte dello sviluppo del Parco di Portovenere e vista la volenterosa disponibilità della Fondazione Marenostrum, con tutta la sua specifica esperienza in un bacino così ricco di passato, con un presente difficile ma con un futuro di rinnovato modello di civiltà e cultura.

    Prof. Mauro Fornaro Prof. Vanni Badino

  • Saluto del Presidente del Parco Naturale Regionale di Portovenere

    Arch. Stefano Mugnaini

    Buongiorno e benvenuti a tutti nel Parco Naturale Regionale di Portovenere Un saluto particolarmente sentito in quanto avvenimenti come questo testimoniano il grande interesse che il nostro patrimonio ambientale suscita nello studioso, nell'appassionato, nel semplice turista: è un patrimonio sentito, vissuto e tuttavia ancora da valorizzare completamente con iniziative che abbiano innanzitutto come scopo la riscoperta delle tradizioni, delle trasformazioni e della presenza antica dell'uomo, delle risorse naturali che ci hanno reso famosi in tutto il mondo. E' un compito audace che l'organismo di gestione da me presieduto, del quale porto il saluto a tutti voi, intende perseguire con perseveranza e sistematicità in modo da poter divulgare una conoscenza che ritengo essere determinante per comprendere come si sia formato un ambiente di questo genere e chi abbia contribuito a renderlo particolare anche con il sudore e la fatica. La conoscenza di alcuni aspetti della vita e delle attività umane, nel nostro territorio, è elemento essenziale per comprendere come alcune trasformazioni hanno caratterizzato in maniera decisiva la geomorfologia e il paesaggio costruito, l'antica presenza di abitanti sull'isola, l'incredibile e mistica forza di attrazione che queste isole hanno costituito per tanti personaggi, l'evolversi delle esigenze di natura militare e strategica, il lavoro per l'escavazione del marmo e delle attività legate al mare, sino all'attuale sviluppo del turismo. Coltivare ed approfondire queste conoscenze sono tra i più importanti obbiettivi del Parco, attraverso iniziative, studi, attività e promozione. Assieme al lavoro che stiamo portando avanti per dotarci di uno strumento essenziale come il Piano del Parco, definito dalla legge istitutiva del Parco stesso, la Legge Regionale n° 30 del 2001, un obbiettivo particolare, molto complesso nella costruzione dei modi per raggiungerlo, è quello di inserire il territorio tra i Geoparchi dell'Unesco, sulla base delle specifiche necessarie fornite dall'organismo medesimo che, attualmente tutela già, dal 1997, parte del nostro territorio: è un obbiettivo ambizioso e qualificante, per il raggiungimento del quale, sicuramente occorrerà il contributo di tanti, tra cui credo che assumeranno importanza anche coloro che hanno lavorato e che sono presentì a questo convegno e di cui cercheremo, nei modi migliori, la collaborazione e l'apporto scientifico necessario. Questa è l'occasione per aprire un contatto che credo possa essere utilissimo per percorrere quella strada. La struttura geologica particolare del nostro territorio in passato ha costituito un discreto elemento di sviluppo economico, prova ne è che ai primi del novecento erano in attività, solo alla Palmaria, 16 siti di escavazione del marmo portoro, in cui concittadini, lavoratori provenienti dalla costa Apuana hanno distribuito sudore e fatica per estrarre un prodotto che, testimone unico di questa particolarità geologica, ha dato e da un certa notorietà alla produzione locale: non che l'attività economica derivante sia stata e sia determinante per lo sviluppo della comunità locale, viste le dimensioni e le quantità in gioco, però un segno sul territorio c'è stato e c'è tutt'ora, evidente e in alcuni casi devastante. Sono stato amministratore per 15 anni in questo Comune e uno dei ricordi indelebili che porto con me di questa esperienza, fu la lunghissima battaglia che portammo avanti nei confronti di alcune escavazioni che, al tempo, siamo attorno agli anni 83-84, continuavano un processo di disgregazione del territorio, antagonista di una più accesa e determinata azione di tutela: si dovette arrivare sino alla Corte Costituzionale e alimentare una animata battaglia con la Regione Liguria per mettere la parola fine alle attività nei siti più delicati e compromessi, quali quelli del Tino e della zona sud-est dell'Isola Palmaria. Oggi queste testimonianze, assieme alla presenza di innumerevoli cavità presenti sull'isola, si ritiene debbano costituire un elemento forte di quel processo di conoscenza e valorizzazione che è alla base

  • del percorso che, speriamo nel più breve tempo possibile, ci consenta di entrare nei siti Geoparchi dell'Unesco. Alcuni siti, specialmente le cave del Pozzale, quelle sopra la Cala Piccola, nella parte sud-ovest dell'isola Palmaria, quelle appartenenti al Monte Muzzerone nel territorio Comunale sopra Portovenere, rappresentano il palcoscenico ideale per percorsi culturali e turistici legati alle modalità estrattive, ai sistemi di trasporto, lavorazione, uso e tipologia di materiale estratto: all'interno dei teatri possono essere realizzati percorsi, aree di sosta, spazi polifunzionali, connessioni con altri siti importanti (vedasi ad esempio, la contiguità della Cava del Muzzerone, con la palestra di roccia gestita dal CAI e meta di livello internazionale, o con l'attivazione di sentieri protetti che permettano di girare tutt'attorno ai siti del Pozzale in area ove sorge il sito archeologico della Grotta dei Colombi). Lo sforzo, attualmente, è costituito dalla possibilità, attraverso la sottoscrizione di un protocollo di Intesa tra Comune di Portovenere, Parco, proprietà e gestori, della cava del Muzzerone, di realizzare l'inizio di un recupero integrale di parte del teatro della cava, con i relativi percorsi e immobili ivi presenti per un uso destinato alla pubblica fruizione, con destinazioni legate alla ricettività, alla didattica scientifica e culturale, alla raccolta museografica di reperti e testimonianze dell'antica attività dei cavatori: una iniziativa unica, perlomeno nella nostra zona, che permetterà di aprire al turista amante del trekking, all'occasionale visitatore, siti sino ad oggi mai visti né mai frequentati ubicati nei più sperduti angoli della Riserva Integrale del Parco. I risultati ottenuti con questa operazione, saranno oggetto di un simposio che il Parco organizzerà nel maggio del 2006, sull'isola Palmaria, che permetterà di far ulteriormente conoscere e mettere a confronto esperienze analoghe a quella sopra riportata, con approfondimenti di natura tecnica e scientifica sulla storia e l'evoluzione dell'estrazione del marmo: credo che questo appuntamento possa essere un palcoscenico idoneo affinché tali esperienze possano misurare i propri effetti nel migliorare le condizioni di accoglienza dei nostri posti. Spero altresì che molti dei partecipanti a questo convegno siano presenti e vogliano produrre un proprio qualificato contributo all'incontro. Termino augurando a questa qualificata platea un proficuo lavoro e un saluto agli organizzatori Grazie per l'ospitalità

  • INDICE DEI POSTER ESPOSTI UNITÀ DI RICERCA 4

    1. CAVE STORICHE E TECNICHE ESTRATTIVE...................................................................2 2. IL VERDE ALPI CESANA: UN CONTRIBUTO GEOMINERARIO ALLA MEMORIA

    DELLE SUE CAVE IN UN PERCORSO FRA TECNICA E NATURA..................................7 3. IL TRATTAMENTO E L’UTILIZZO DEI FINI DI SEGAGIONE LAPIDEA PER IL

    RECUPERO AMBIENTALE DELLE CAVE. .......................................................................10 4. ASPETTI GEO-GIACIMENTOLOGICI DELLA MEDIA VAL TANARO E RISORSE

    LAPIDEE DEL COMUNE DI GARESSIO (CN): ANALISI STORICA, SITUAZIONE ATTUALE E PROSPETTIVE FUTURE................................................................................15

    5. CARTA GEOLOGICA DEI MARMI E DELLE PIETRE ANTICHE NEL BACINO MEDITERRANEO .................................................................................................................20

    6. CARTA GEOLOGICA DELLE ROCCE EGIZIANE ............................................................23 7. CARATTERIZZAZIONE PETROGRAFICA DEL MARMO DI AYMAVILLE E DI

    VILLENEUVE........................................................................................................................27 8. IL BACINO ESTRATTIVO DELLE ARENARIE DI M. GOTTERO: CARATTERISTICHE

    DELLA PIETRA, ASPETTI GIACIMENTOLOGICI ED IMPIEGHI...................................30 9. GLI ANTICHI SITI ESTRATTIVI DI MARMO PORTORO SULL’ISOLA PALMARIA

    (PROMONTORIO OCCIDENTALE DEL GOLFO DI LA SPEZIA - LIGURIA).................34 10. VALORIZZAZIONE DI ITINERARI GEOLOGICI NEL PROMONTORIO

    OCCIDENTALE DEL GOLFO DI LA SPEZIA: LE CAVE DI MARMO PORTORO .........38 11. LE PIETRE VERDI DELLA VAL D’OSSOLA: USI STORICI, CARATTERIZZAZIONE

    PETROGRAFICA E GEOCHIMICA, CONFRONTO CON LE SERPENTINE DELLA VALMALENCO.....................................................................................................................41

    UNITÀ DI RICERCA 1

    12. DETERMINAZIONE DELLE CARATTERISTICHE LITOAPPLICATIVE DELL’ARENARIA DI VICOFORTE: INDAGINI PRELIMINARI .....................................................................46

    13. STUDIO GEO-GIACIMENTOLOGICO DI UN POTENZIALE SITO ESTRATTIVO: IL CASO DELL’ “ARENARIA DI VICOFORTE” .......................................................................48

    14. PARROCCHIALE DI SAN LORENZO A SALICETO: PRIME CONSIDERAZIONI SU ALCUNE CARATTERISTICHE DELL'ARENARIA IMPIEGATA NEL PARAMENTO DI FACCIATA.............................................................................................................................51

    15. CHIESA DI SAN LORENZO IN SALICETO (CUNEO) - ANALISI CON LA TECNICA DELL’INFRAROSSO (TERMOGRAFIA) DELLA FACCIATA. ........................................52

    UNITÀ DI RICERCA 2

    16. DISSESTI STATICI E PARAMETRI FISICO-MECCANICI DEL “TUFO CALCAREO” DELLE CAVE DI “PIETRA CADUTA”, CANOSA DI PUGLIA.........................................57

    17. LA DISTRIBUZIONE DELLE CALCARENITI NELL’AREA DI CANOSA DI PUGLIA (BARI). ASPETTI GEOLOGICI E LITOSTRATIGRAFICI .................................................60

    18. RISORSE LAPIDEE E ATTIVITA’ EDILIZIA A CANOSA DI PUGLIA: OSSERVAZIONI SULLE TECNICHE COSTRUTTIVE NEL CASTELLO......................................................63

    19. RISORSE LAPIDEE E ATTIVITÀ EDILIZIA A CANOSA DI PUGLIA. IL TERRITORIO E LE CAVE ................................................................................................................................66

    UNITÀ DI RICERCA 3

    20. LA “PIETRA SERENA” DELLA CUPOLA DI BRUNELLESCHI ......................................70

  • 21. LA PIETRA SERENA A FIESOLE: CONOSCENZE GEOLOGICHE DI BASE PER IL RESTAURO E LA VALORIZZAZIONE...............................................................................73

    22. CARATTERIZZAZIONE DEGLI AREALI, DELLE MODALITÀ DI RACCOLTA E DI UTILIZZO DELLE MATERIE PRIME IN DUE AREE CAMPIONE: IL BACINO DI FIRENZE E IL BASSO VERSANTE TIRRENICO ...............................................................76

    UNITÀ DI RICERCA 5

    23. NUOVE METODOLOGIE DI INDAGINE PER CARATTERIZZAZIONE FISICO-MECCANICA, MINERALOGICO- PETROGRAFIA DEI MARMI. ...................................80

    UNITÀ DI RICERCA 6

    24. IL DISTRETTO DEL GRANITO DELLA GALLURA (SARDEGNA NORD-ORIENTALE): IPOTESI DI VALORIZZAZIONE CULTURALE DI UNA RISORSA ECONOMICA E DI CONSERVAZIONE DI UN PATRIMONIO SECOLARE. ...................................................85

    UNITÀ DI RICERCA 7

    25. IL TRAVERTINO PROVENIENTE DALLE CAVE STORICHE DIMESSE DI CISTERNA DI LATINA: PROVA DI CLASSIFICAZIONE MERCEOLOGICA MEDIANTE ANALISI D’IMMAGINE........................................................................................................................91

    CONTRIBUTI ESTERNI

    26. ATLANTE DELLA PIETRA TRENTINA.............................................................................96 27. 5 TERRE – DA PORTOVENERE A LEVANTO ...........................................................................101

  • UNITA’

    DI

    RICERCA 4

  • “Le pietre del Territorio. Cultura, Tradizione, Sviluppo sostenibile” Isola Palmaria (SP), 17-18 ottobre 2005

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    CAVE STORICHE E TECNICHE ESTRATTIVE Mauro FORNARO1, Enrico LOVERA2 1Dipartimento di Scienze della Terra – Università degli Studi di Torino 2Dip. di Ingegneria del Territorio, dell’Ambiente e delle Geotecnologie – Politecnico di Torino Non sappiamo con certezza se le cave di Portoro fossero già coltivate in epoca romana imperiale [Del Soldato, 1997], ma la vicinanza ai bacini produttivi marmiferi di Luni – progressivamente riducendosi l’arrivo di marmo bianco da Paro – da un lato e l’intraprendenza dei marmorai, ovunque Roma arrivasse, per rifornirla di nuovi materiali più pregiati, lasciano supporre che ciò sia davvero potuto accadere, magari surrogando nei magazzini di Porto Claudio, a Fiumicino [AA.VV., 2002], il marmo di Rodi, anch’esso scuro con vene dorate [Corsi, 1828; Pieri, 1966]. In tal caso le tecniche di estrazione della pietra nelle cave della Palmaria avrebbero precedenti piuttosto antichi, fatti evidentemente di mazze, picche o quant’altro vi fosse di strumentazione manuale specifica per lo stacco dal monte di blocchi lapidei [Dolci, 1989], sfruttando in ogni caso le superfici di naturale separazione strutturale (“giunti”). Le coltivazioni comunque non si sarebbero certo fermate al cielo aperto, secondo le configurazioni “a gradoni” dei cantieri – ancora oggi adottate, di solito, nelle nostre cave di monte – come riconoscibile nei siti storici ritrovati [AA.VV., 1984] (fig.1). Lo scavo in sotterraneo della pietra era infatti già allora praticato, nei casi ad esempio in cui una scopertura degli sterili diveniva, per i mezzi disponibili, proibitiva; d’altra parte le stesse “latomie” greche avevano fatto scuola, e che severità di scuola! [Adam, 1994]. Alcuni studiosi di queste parti hanno anche ricostruito, con pregevole disegno al tratto – cosa ormai rara nei testi scientifici – uno scenario di cava sotterranea di Portoro quanto mai completo e verosimile, anche per occhi esigenti ed esperti sul tema [Del Soldato et al., 1985]. Dal punto di vista metodologico, le cose non sono poi così cambiate, in quasi 2000 anni: la cava era “aperta” sulla parete superiore mediante gallerie – scavate a distruzione con mezzi solo manuali –

    Figura 1 Coltivazione a cielo aperto sulla Palmaria; sulla destra si nota un passaggio ingalleria di accesso al versante a strapiombo sul mare

  • “Le pietre del Territorio. Cultura, Tradizione, Sviluppo sostenibile” Isola Palmaria (SP), 17-18 ottobre 2005

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    facendo poi seguire i ribassi di “coltivazione” per blocchi lapidei. Ciò avveniva aprendo (possibilmente nei “finimenti”) dei “canali” laterali, a partire dai pozzetti di assaggio, di servizio per la manovra degli utensili di taglio della roccia, non diversamente – trattandosi, a quel tempo, di lame trascinanti acqua e sabbia – da quanto è stato previsto fino a pochi anni fa dallo stesso filo elicoidale [Carriero et al., 1974]. Nella fattispecie del Portoro, quindi, lo stacco delle bancate è proceduto nelle camere – dopo la scopertura a “tetto” – tagliando, di regola, la roccia secondo piani verticali (del “secondo” o del “contro”) ed orizzontali (del “verso”); la successiva sezionatura in blocchi permetteva poi la movimentazione di volumi di pietra “commerciali”. La successione litostratigrafica della “serie di La Spezia”, alla quale appartiene la formazione produttiva della pietra è descritta da diversi Autori, essendo il Portoro ricompreso tra i calcari scuri del Trias superiore, più o meno dolomitizzati. Schematicamente si può considerare il Portoro – a prescindere dalle facies, a macchia larga o fine dorata (Portoro di “prima”) ed a banda chiara ed argentea (Portoro di “seconda”) – una dolomitizzazione parziale di un calcare micritico che, passando a dolomite diviene sterile (“tarso”). Tale formazione “marmorizzata” veniva interessata scoprendo le camere, salvo dover poi compiere una successiva bonifica di tale “falso” tetto, arrivando al calcare vero. La stratificazione della pietra, secondo caratteristiche successioni di facies litologiche, determina, nella coltivazione del Portoro”, le linee di distacco dei diversi volumi rocciosi, opportunamente selezionabili per il commercio e la successiva segagione. Le potenze complessive, di una decina di metri – massimamente se si considera anche la pietra a macchia bianca “Portovenere” – è comunque tale da dare luogo a delle camere di notevole altezza, come ad esempio si verifica nelle cave del Promontorio [Pandolfi et al., 1989; Pieri, 1950]. Gli sfridi di cava, soprattutto dovuti ai banchi fratturati e meno belli, oltre che alle scoperture ed agli inclusi, hanno potuto dare luogo ad accumuli di notevoli volumi litoidi, purtroppo solo in qualche caso più favorevole, suscettibili di un riutilizzo – oggi riscoperto nei principali agri marmiferi nazionali, come Carrara, Botticino, Apricena (solo in parte), ecc… – non tanto quale pietrisco quanto come carbonato industriale, oltre alla pietra da calce. La presenza di alcune fornaci, in collocazione strategica sul territorio, è documentata da diversi Autori, che segnalano altresì una oculata cottura selettiva di calcari e dolomie [Del Soldato, 1985; Pieri, 1950]. Nei casi meno favorevoli, oltre alla consueta “gettata” dal versante più comodo – oggi esecrabile, in casi congeneri – lo stesso materiale di risulta era posto a ripienamento delle camere non più coltivate, secondo una tecnica (minerariamente corretta) di “liquidazione” dei vuoti inutilizzabili e, magari, di incipiente instabilità [Fornaro et al., 1999]. Nelle cave visitabili, al Tino (località Punta Bianca, ora campo di esercitazione degli Incursori della Marina) si vedono bene le tracce di questa tecnica di cava affermatasi qui come altrove (fig.2). In particolare si notano le fasce alte, di parete, scavate a distruzione – con uso ridotto di esplosivo e mine di giacitura controllata, a tetto delle camere, queste ultime da mantenere rigorosamente autoportanti – i pozzetti verticali di servizio1, scavati anch’essi manualmente, con cortissime perforazioni di piccolo diametro, assai ravvicinate, di “profilatura” – come in uso anche in altre cave, per esempio a Candoglia nel marmo rosa per il Duomo di Milano, ma anche nel Bianco di Lasa e nei Verdi alpini in generale [Consiglio, 1964]. Da tali spazi operativi, sempre piuttosto ristretti, hanno tuttavia potuto abilmente operare i “filisti” che, con guide e rinvii, conducevano il filo nella posizione richiesta, per i tagli della pietra “al monte” e per lo stacco delle bancate volute. 1 Agli angusti pozzetti aperti nelle cave di Portoro è stato curiosamente dato il nome di “anime”. Potrebbe forse, come avviene per i getti di fonderia, indicare semplicemente una cavità, da ricavare nel massello solido; ma anche generalmente indicare, oltre al passaggio, una via d’aria, nella quale, soprattutto nelle cave aperte sul mare, il vento (anemos), soffiando, può riprodurre suoni quali lamenti… come d’“anime” purganti. È senz’altro una suggestione, però provata personalmente vistando una cava a mezza costa, sul Promontorio, molti anni fa!

  • “Le pietre del Territorio. Cultura, Tradizione, Sviluppo sostenibile” Isola Palmaria (SP), 17-18 ottobre 2005

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    Le guide “cosciali” erano realizzate in modo semplice e robusto, con azionamento manuale e controllato della “cala” (progressione di taglio, verticale, ma anche suborizzontale o “pari”), con leggera pendenza, favorevole al “varo” del volume roccioso così isolato.

    Un notevole progresso tecnologico fu consentito dalla introduzione della “puleggia penetrante” (Monticolo) in grado di portare il filo nella roccia, seguendo come guida una perforazione di medio diametro [Consiglio, 1964], senza perciò dover preparare un canale e non potendo disporre, comunque, di una superficie libera laterale2. La tecnica del filo, partita dal Belgio a metà dell’’800 ma poi diffusa nel mondo – soprattutto dai cavatori apuani – ha però rappresentato una grande scuola anche per il successivo affermarsi, a partire dagli anni 1970, del filo diamantato, più pratico ed efficiente, ma che egualmente ha richiesto personale capace di “vedere”, con anticipo, i tagli da dare nella roccia, comprendendo le geometrie tridimensionali da rispettare – già per le perforazioni in cui passare il filo – e di valutare, preventivamente, sforzi consentiti dalle macchinette, in condizioni di sicurezza, e lunghezze di “catenaria” necessarie per le corrette operazioni di taglio al monte. A titolo conoscitivo, trattandosi ormai di tecnologie desuete da oltre 20 anni, si illustra uno schema operativo di scavo in sotterraneo con l’utilizzo del filo elicoidale, disponendo già di un’ampia parete (tecchia o sottotecchia) libera frontale: I – Asportazione dello strato di “scoperchiatura” mediante due tagli orizzontali, paralleli e sovrapposti, distanti meno di 2 m, per una profondità di 4-5 m ed una lunghezza di una decina di metri circa di taglio. Il materiale interposto può essere abbattuto con mine.

    2 La mancanza, tuttora, di una soluzione corrispondente – date le diverse dimensioni delle parti in movimento e degli stessi utensili di taglio, quali le “perline”, elettrodeposte o sinterizzate – per i fili diamantati costituisce un loro limite applicativo, soprattutto per i tagli “ciechi” (a catenaria rovescia) nelle rocce più dure come le granitoidi, le quarziti, ecc… per le quali – in attesa di una tecnologia idrogetto (water-jet) economicamente più competitiva – sono solo possibili perforazioni di grosso diametro in cui inserire le pulegge di rinvio del filo diamantato, fissate su idonee batterie di aste con centratori [Fornaro et al., 2004].

    Figura 2: Accesso ad una coltivazione in sotterraneo sull'isola del Tino. Si noti la traccia del pozzetto scavato per il passaggio delle pulegge necessarie al taglio con filo elicoidale

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    II – Nella scopertura è possibile effettuare perforazioni verticali pilota (diametro 9 cm), con corone diamantate e recupero della carota, derivando il moto dallo stesso filo elicoidale, nelle quali di inseriscono le pulegge penetranti [Carriero et al. 1974]. Divengono così fattibili i tagli verticali laterali, dal momento che al fronte possono essere collocati due montanti, con regolazione della cala. III – Il taglio di schiena avviene poi a catenaria rovescia, mentre per il taglio al piede si può eseguire una perforazione orizzontale di guida sino ad incontrare il foro verticale esistente. L’utilizzo di una puleggia più piccola, orientabile nel foro verticale, consentiva altresì tagli di base a “ventaglio”, pur tra notevoli difficoltà di immissione di torbida abrasiva e di mantenimento dei piani prefissati nonostante il “cavallo” residuo di roccia dovuto alla configurazione del filo a catenaria rovescia. In alternativa alla scopertura descritta in I, c’era la possibilità di scavare due gallerie laterali, a distruzione, con mine ordinarie, a cui dare seguito in due pareti verticali (un po’ più sotto al piano di taglio voluto, per compensare il previsto “cavallo”) mediante perforazioni corte e esplosivo, su una sezione quadrata (con lato di 1,3 m). Da tale pozzetto, con filo elicoidale, si completava il canale, sottostante alla galleria di cui sopra in modo da poterlo abbattere senza danno per il pannello di roccia compreso tra i due canali. A questo punto era possibile fare il taglio di schiena del volume intero, nonché il taglio pari, con pendenza favorevole al distacco, se non anche al ribaltamento. La sopraggiunta disponibilità di tagliatrici a “catena” di sempre maggiori prestazioni meccaniche ha poi ulteriormente semplificato e reso più efficiente lo stacco delle bancate – a gradino alto o basso – operando in configurazione di cava a giorno ma, soprattutto, in sotterraneo [Mancini et al., 1989; Fornaro et al., 1999]. Da segnalare altresì che per la movimentazione nelle camere e sui piazzali, non disponendo un tempo i cavatori del Portoro delle facilitazioni offerte dalle macchine attuali “tutto fare”, quali le pale e gli escavatori, si doveva provvedere a collocare i dovuti ancoraggi alla roccia in posto per argani elettrici di trascinamento a fune, di ribaltamento delle bancate, di sollevamento dei blocchi e quant’altro; per le operazioni più elementari gli stessi “martini” – elevatori trasportabili, con ingranaggi e leve manuali, divenuti rottami nelle cave abbandonate senza recupero – avevavo la funzionalità dei “crick” e dei cuscini di spinta più moderni [Carriero et al., 1974; Gerbella, 1956]. I blocchi, riquadrati sul posto per ridurre il peso di materiale inutilizzabile dovuto alle irregolarità dello stacco, fin da epoca storica (romana e prima ancora greca, se non egizia) erano portati dai cantieri, come nel caso della Palmaria per le cave poste ad altezza vertiginosa di parete rocciosa sul mare (ad esempio, le cave tra il Capo Sud e la Punta del Pittone), ai punti di imbarco mediante via di “lizza” – per cariche da 20 t e più – davvero impressionanti, sia manuali che, se di tracciato rettilineo, meccaniche [Pandolfi et al., 1997] (fig.3).

    Figura 3: Schema di un tipico sistema di trasporto dei blocchi dai luoghi di estrazione ai punti di caricamento, tramite "bigo" sulle imbarcazioni

    C’è di che restare non solo ammirati ma persino impauriti di fronte a tali fatiche ed ardimento, per consegnare al “bigo” – semplice gru fissa, con struttura metallica o persino di legno come duemila

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    anni fa – blocchi di pietra da caricare sui battelli, fragili “gusci” natanti – prima a vela e remi, poi a motore – da portare verso porti commerciali (La Spezia, Lerici, Carrara, ecc…) [Pieri, 1950; Pandolfi et al., 2003]. Sarebbero questi i “segni” dell’archeologia lapicida da conservare, quali testimonianze preziose dell’attività estrattiva del Portoro in questo contesto così suggestivo, di monti posti fra mare e cielo; con cantieri ricavati nella natura meno accessibile, in virtù di un adattamento dell’Uomo prima spirituale e solo dopo fisico, come accade a chi scala le montagne più difficili. È però evidente l’impossibilità, oggi, di accedere in sicurezza alla più parte di tali luoghi, localmente abbandonati con chiare manifestazioni di instabilità di camere troppo corticali, di pilastri inadeguati, di tetti lesionati e con parti rocciose visibilmente dislocate [Fornaro et al., 1999]. Eppure realizzare un percorso “in quota”, predisponendo – come in altre località costiere più celebrate – dei sentieri protetti e, dove occorra, provvisti di opportune sicurezze sarebbe un obiettivo affascinante, avendone i mezzi, potendo magari contare su un appoggio logistico ed organizzativo davvero singolare, quale la stessa Fortezza Umberto I [Pandolfi et al., 2003]. Auguriamoci che possa avere, fra i suoi “colpi inesplosi”, anche questa, oggi incredibile sorpresa, per tutti quelli che riteniamo di rappresentare. Riferimenti bibliografici AA.VV. (1984). Il marmo ieri e oggi. Soc. Ed. Apuana, Carrara AA.VV. (2002). I marmi colorati della Roma Imperiale. Ed. Marsilio, Venezia Adam J.P. (1994). L’arte di costruire presso i romani. Materiali e tecniche. Ed Longanesi, Milano Carriero M., Capuzzi Q., Failla S. (1974). Ricerca, coltivazione ed utilizzazione dei marmi apuani. Raccolta della rivista “Carrara Marmi” (n° 74-76) Consiglio A. (1964). Il marmo. Ed Tecniche EDIT, Milano Corsi F. (1828). Delle pietre antiche. Libri Quattro, Ed. Salviucci, Roma (ristampa anastatica G. Zusi, Verona, 1991) Del Soldato M. (1997). Risorse minerarie (lapidee e minerali) nella Liguria Orientale. Conv. “Insediamenti, viabilità ed utilizzazione delle risorse nella Liguria protostorica del Levante”, Framura Del Soldato M., Pintus S. (1985). Studio geologico storico delle attività e delle tecniche estrattive nella Liguria Orientale. Mem. Acc. Lunig. di Scienze, Vol. XLV-XLVII, La Spezia Dolci E. (1989). Il marmo nella civiltà romana. Mostra-seminario, IMM Carrara Fornaro M., Bosticco L. (1999). La coltivazione in sotterraneo delle rocce ornamentali. Quaderno n. 22 di Studi e Documentazione, GEAM, Torino Fornaro M., Lovera E. (2004). Geological-technical and geo-engineering aspects of dimensional stone underground quarrying. Proc. Int. Conf. “EurEnGeo 2004”, Liege - Belgium, 4-7 May 2004. Springer-Verlag, Berlin (ISBN 3-540-21075-X). pp. 574-584 Gerbella L. (1956). Arte mineraria. Ed. Hoepli, Milano Mancini R., Fornaro M. et al. (1989). Risultati pratici dall’impiego di filo diamantato e tagliatrice a catena nelle cave di oficalci. Conv. ANIM sull’industria lapidea, Cagliari Pandolfi D., Pandolfi O. (1989). La cava I. Ed Belforte, Livorno Pandolfi D., Pandolfi O. (1997). La cava II. Ed. Graphin, Sarzana (SP) Pandolfi D., Pandolfi O. (2003). La cava III. Ed. Media Print, Livorno Perrier R. (2004). Les roches ornamentales. Ed. ProRoc, Ternay (F) Pieri M. (1950). I marmi d’Italia. Ed. Hoepli, Milano Pieri M. (1966). Marmologia, Ed. Hoepli, Milano

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    IL VERDE ALPI CESANA: UN CONTRIBUTO GEOMINERARIO ALLA MEMORIA DELLE SUE CAVE IN UN PERCORSO FRA TECNICA E

    NATURA

    Sabrina BONETTO, Mauro FORNARO Dipartimento di Scienze della Terra – Università degli Studi di Torino Tra le diverse pietre ornamentali piemontesi il cosiddetto “Marmo Verde” ha occupato una posizione di rilievo nell’ambito del mercato nazionale ed internazionale per la sua eleganza e signorilità. Anche se denominato commercialmente “marmo”, tale materiale è rappresentato in realtà da oficalce, il cui aspetto è quello di un “marmo” a sfondo verde scuro, a volte quasi nero, solcato da un raffinato intreccio di vene bianche (Figura 1) con occasionali “difetti” cromatici dovuti a screziature rossastre. Nei diversi siti di estrazione sono stati ricavati blocchi facilmente scolpibili e superfici brillantemente lucidate di rara ricchezza e decoratività che hanno fatto del “Marmo Verde” un materiale di particolare pregio di cui il Piemonte e la Valle d’Aosta hanno vantato la più forte produzione in Italia (Fornaro, 1999).

    Figura 1: particolare di una lastra lucidata di oficalce proveniente da una cava ubicata nel territorio di Cesana (Piemonte).

    In particolare la più rinomata e commercialmente pregiata fra le oficalci piemontesi, alle quali appartiene anche il Verde Acceglio” (CN), proviene da Cesana ed è notoriamente conosciuta come “Verde Alpi Cesana”. Assomiglia molto al Verde Antico dei Romani e dei Greci (Pieri, 1966). L’attività estrattiva si è concentrata all’interno del massiccio del Monginevro – Chenaillet (grossolanamente in corrispondenza dei cosiddetti Monti della Luna) ed ha interessato un’area di una decina di chilometri quadrati compresi tra la Val Gimont, l’abitato di Cesana T.se, il Monte Cruzeau ed il Lago Nero. I primi giacimenti di tale materiale furono scoperti alla fine del XIX secolo dal Cav. del Lav. Oreste Catella ed i siti in cui venne storicamente estratto il “Verde Alpi Cesana”, attualmente tutti abbandonati, furono quattro (Di Pierro, 1997): - in località Roche Noir, lungo il versante orientale dei Monti della Luna, in sinistra orografica del torrente Ripa; - il località Livernea, lungo le pendici settentrionali di P.ta Rascià;

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    - presso l’attuale palestra di roccia, ubicata alcune centinaia di metri a sud dell’abitato di Cesana, lungo la strada che conduce verso Busson; - alle pendici del versante occidentale del Monte Cruzeau, lungo la S.S. 23 del Colle di Sestriere. La cava presente in quest’ultimo sito, denominata “Cava Champlas” e coltivata dalla Ditta Lazzoni e dalla Ditta Catella, è la più antica, ma è anche la prima ad essere stata abbandonata sia per la scarsa qualità del materiale, sia per il procedere dell’urbanizzazione (Di Pierro, 1997). In località Roche Noir l’attività estrattiva, sviluppatasi in corrispondenza a tre cave poste a quote differenti, cominciò tra il 1924 ed il 1925 ad opera della Società Marmifera Verde Alpi – SMIVA (Masini, 1930). Dopo un primo distacco di lastre dalle porzioni più superficiali dell’ammasso roccioso, gli scavi proseguirono, in sotterraneo verso l’interno della montagna (Figura 2) e terminarono agli inizi degli anni ’70 con il completo abbandono del sito estrattivo. Lungo il versante in questione è oggi ancora possibile osservare gli imbocchi di alcune gallerie di coltivazione.

    a) Figura 2: a) sottotecchia in località Roche Noir; b) superfici di taglio realizzate mediante filo elicoidale in uno dei sottotecchia della cava in località Roche Noir

    b)

    La maggior produzione di Verde Alpi avveniva invece nella cava a cielo aperto gestita dalla Ditta Catella presso località Livernea. Qui l’estrazione del marmo verde, cominciata nel primo dopoguerra, fu caratterizzata, agli inizi, da una produzione limitata alle mere esigenze del mercato locale a causa delle potenzialità tecnologiche ancora ridotte, degli elevati costi di produzione e dei problemi di accessibilità al sito stesso. Solo dopo la seconda guerra mondiale la cava Catella visse un vero e proprio “boom estrattivo” che si protrasse fino agli anni ’80, con un solo periodo di interruzione tra il 1972 ed il 1973 in seguito ad una valanga che comportò la sostituzione delle attrezzature ed una riorganizzazione del cantiere (Di Pierro, 1997). In tale sito, benché ogni attività sia oramai cessata da più di vent’anni, sono ancora presenti alcune attrezzature del vecchio cantiere tra cui il “derrik” ed alcuni cavi fortemente usurati utilizzati, rispettivamente, per lo spostamento dei blocchi e matasse di filo elicoidale già logoro per il taglio della pietra. Come per le altre cave della zona, il taglio del marmo verde avveniva mediante il filo elicoidale, il quale richiedeva elevati quantitativi di sabbia quarzosa che doveva essere fatta arrivare da Carrara, per ferrovia fino ad Ulzio e poi con camion fino a Livernea, con alti costi di trasporto. Si ricavavano così sia blocchi di grandi dimensioni (Figura 3), sia lastre di pochi centimetri di spessore che costituivano un materiale da ornamentazione, “d’effetto grandioso ed austero” (Peretti, 1937); fu così impiegato in palazzi e chiese per le realizzazione di colonne, altari, balaustre, zoccoli, rivestimento di pareti, lastre per pavimenti, ecc.

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    Il Verde Cesana fu particolarmente apprezzato in Francia durante l’Impero. (Peretti, 1938). Tra le principali applicazioni all’estero si possono ricordare tutta la decorazione del Palazzo di Giustizia a Bruxelles, i portali e la zoccolatura della Cattedrale di Annecy, diverse costruzioni in Bangkok, e l’esterno della gioielleria di Cartier di Parigi. In Torino il Verde Alpi è stato invece utilizzato, per esempio, per le colonne nella Chiesa della Madonna della Salute, nel Salone della Banca d’Italia e della Cassa di Risparmio di Torino, nella Galleria S. Federico e nella Galleria Subalpina, nel Palazzo delle Poste e Telegrafi e per il pavimento del foyer del Teatro Regio (Catella, 1967; Fiora & Di Pierro.,1998; Gonella, 1997). Dopo circa un secolo di storia, cessò dunque ogni attività di estrazione della pietra che rese celebre il nome di Cesana nel campo dell’industria marmifera internazionale. Le ragioni di tale interruzione sono da ricercarsi nell’elevata fratturazione della roccia e nella conseguente eccessiva produzione di scarti, negli elevati costi di trasporto del materiale di cantiere e nel limitato periodo in cui era possibile lavorare in cava (da maggio ad ottobre) (Fiora&Di Pierro, 1998). Bibliografia

    MASINI R. (1930) – I dintorni di Cesana Torinese, di Busson e di Clavières (Alpi Cozie) nella geologia e nell’industria marmifera. Parte II. Boll. Soc. Geol. It, Vol. XLIX-Fasc. 1, pp. 105 – 142.

    PERETTI L. (1937) – Pietre da costruzione e da ornamentazione nel primo tratto della nuova via Roma in Torino. Estratto dalla rivista tecnica “IL Valentino” Anno XXVIII, pp. 1 – 13.

    CATELLA M. (1967) – Piemonte Marmifero. Estratto dalla rivista “Marmi – Graniti – Pietre”, n° 36, gennaio 1967. FIORA L., DI PIERRO S. (1998) – Caratterizzazione petrografia della oficalcite “Verde Cesana” e di potenziali rocce

    oficarbonatiche sostitutive. Estratto 5° giornata “Le Scienze della Terra e l’Archeometria”, Bari – 19 e 20 febbraio 1998. Patron Editore – Bologna, pp. 99 – 108.

    DI PIERRO S. (1998) – Studio geologico – petrografico del Marmo Verde Alpi Cesana e confronto petrografico con analoghe rocce oficarbonatiche di provenienza straniera. Tesi di Laurea in Scienze Geologiche, Università degli Studi di Torino, inedita.

    GONELLA L.. (1997) - La pietra ed il suo utilizzo in alta Val di Susa: elementi funzionali di decoro negli spazi comuni. Tesi di Laurea, Facoltà di Architettura, Politecnico di Torino

    PIERI M. (1966) – “Marmologia. Dizionario di marmi e graniti italiani ed esteri. Hoepli Ed., Milano, pp.626. PERETTI L. (1938) – “Rocce del Piemonte usate come pietre da taglio e da decorazione”. Estr. da “Marmi Graniti

    Pietre”, anno XVI, n° 2 aprile 1938, pp. 43. FORNARO M., FERRARESE P., FIORA L., PRIMAVORI P. (1999) – “ La coltivazione di Marmi Verdi della Valle

    d’Aosta, aspetti giacimentologici, tecnici ed economici”. Marmo Macchine n. 146, anno XXIX, Promorama, Milano, pp. 168 – 230.

    REGIONE PIEMONTE (2001) – “Cave”. Assessorato alle cave e torbiere della Regione Piemonte, Torino, pp.118.

    Figura 3: immagine (a) e schema (b) di sezionatura del volume roccioso staccato dal monte mediante l’impiego del filo elicoidale

    a) b)

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    IL TRATTAMENTO E L’UTILIZZO DEI FINI DI SEGAGIONE LAPIDEA PER IL RECUPERO AMBIENTALE DELLE CAVE.

    LE RICERCHE DA PARTE DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO NEL CAMPO DELLE ROCCE SILICATICHE.

    Giovanna Antonella DINO, Mauro FORNARO Dipartimento di Scienze della Terra – Università degli Studi di Torino Inquadramento del problema La tendenza generale, per i maggiori bacini alpini, così come da precedenti indagini e sperimentazioni (Fornaro et al., 2003), è quella di arrivare a smaltire i fini di segagione (fig. 1) in modo eco-compatibile, tenendo principalmente conto del fatto che essi presentano una distribuzione granulomentrica (fig. 3) con prevalente componente di finissimi (

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    Figura 3: distribuzione granulometrica fanghi da telaio (Val d’Ossola e Bacino Luserna S. Giovanni)

    In questa sede, trattandosi di produzioni lapidee, si vuole portare all’attenzione degli interessati una promettente ricerca, non solo per appurare la presenza di idrocarburi nei materiali prodotti dai laboratori, ma anche per verificare la possibilità di eseguire trattamenti di Bioremediation al fine di ottenere materiale utile per recuperi ambientali, che ha visto il coinvolgimento del DST – Università degli Studi di Torino, la Soc. ACEA di Pinerolo, La Soc. Envirorem di Lugano, con l’appoggio dell’Unione Cavatori di Bagnolo Piemonte (CN) e del Comune di Bagnolo Piemonte. Il progetto BIOREMEDIATION, si è occupato di progettare e replicare presso l’impianto di compostaggio ACEA Pinerolese Industriale una precedente esperienza empirica di valorizzazione dei fanghi condotta in Svizzera dalla società Envirorem di Lugano. Tale sperimentazione, ai sensi dell’articolo 29 del D. Lgs 22/97, ha avuto luogo nell’impianto di compostaggio presso gli stabilimenti del Gruppo ACEA Industriale S.p.A. di Pinerolo ove è stata prevista l’applicazione di un processo di bioremediation su fanghi derivati dalla lavorazione della pietra e classificati con codice CER 010413. Il processo, oggetto di questo studio, si basa in sintesi sulla miscelazione di quantità prefissate di fango di segagione e di “cippato” verde (sfalci e potature), il tutto additivato con opportuni attivatori (brevetto Envirorem n.1299265), al fine di accelerare e stimolare la proliferazione di batteri aerobi autoctoni nell’arco di 12 settimane di maturazione (inizio 2 Marzo 2005, fig. 4). In particolare sono state realizzate 4 miscele: fanghi, materiale organico (sfalci e potature), e/o compost e terreno con l’aggiunta di attivatori (tab.1).

    0,00%

    20,00%

    40,00%

    60,00%

    80,00%

    100,00%

    0,010,1110 mm

    freq

    uenz

    a cu

    mul

    ativ

    a (F

    )

    fango ossolano da rocce granitiche nazioniali ed internazionalifango ossolano da beola e serizzofango da pietra di luserna

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    Figura 4: schema esemplificativo relativo alla metodologia di trattamento

    Lotto A Lotto B Lotto C Lotto D

    Materiale Massa (t) % secco

    Massa (t) % secco

    Massa (t) % secco

    Massa (t) % secco

    Fango Disco 30.5 58,84 41.8 59.43 - - - -

    Fango telaio - - - - 38.0 61.69 - -

    Fango misto - - - - - - 37.0 61.06

    Verde 22.0 22,64 18.0 13.65 23.0 19.91 23.0 20.24

    Compost 12.0 18,52 12.0 13.65 6.0 7.79 6.0 7.92

    Ortofrutta - - 7.0 2.65 - - - -

    Terreno - - 8.0 10.62 7.0 10.61 7.0 10.78

    Totale 64.5 100,00 86.8 100.00 74.0 100.00 73.0 100.00Tabella 1: composizione dei 4 mix inerenti i lotti di trattamento

    La bioremediation serve ad accrescere l’attività dei microrganismi aerobici autoctoni, mediamente presenti nei terreni agricoli con valori di 105 – 107 Unità Formanti Colonie (CFU) per grammo di terreno. Tali valori sono ridotti di 3-4 ordini di grandezza per terreni sterili o fortemente degradati; nel caso dei fini/fanghi di segagione le unità formanti colonie di microrganismi eterotrofi per grammo scendono a valori estremamente bassi. Per contro durante tutto il processo di conversione a “terreno vegetale” attraverso la tecnica proposta, i valori risultano assestarsi stabilmente tra i 108 - 1010 CFU/grammo ed accrescono la capacità di mineralizzare le sostanze organiche, loro sorgenti di energia e di carbonio. La tecnica è dunque un’amplificazione ed un’accelerazione di processi naturali che avverrebbero comunque; tuttavia, senza un’adeguata gestione dei cumuli, senza la fornitura di nutrienti, senza la periodica aerazione della matrice “suolo” e senza monitoraggi ed interventi correttivi, previsti dalla tecnologia, impiegherebbero anni o lustri o secoli per verificarsi. Il processo viene controllato dal monitoraggio

    Fase di conferimento

    Pesatura dei fanghiMiscelazione

    meccanica fanghi con fresa

    Campionamento fanghi

    Campionamento compost, verde e

    t

    Controllo del parametro: umidità e temperatura

    Formulazione miscele: A, B, C, D con pala gommata

    Miscelazione delle componenti

    Inoculo attivatori

    Posizionamento cumuli nel capannone di maturazione accelerata (4 settimane)

    Regolazione insufflazione aria

    Rivoltamenti settimanali dei quattro cumuli

    Campionamento cumuli dopo 4

    settimane dall’inoculo

    Controlli di processo

    Posizionamento cumuli nel capannone di maturazione

    lenta (8 settimane) Controlli di processo

    Campionamento cumuli dopo 12

    settimane dall’inoculo

    Applicazione del terreno per recupero ambientale

    Analisi

    4a fase

    3a fase

    1° fase

    2a fase

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    Obiettivo della sperimentazione La sperimentazione si è prefissa di ottenere un materiale che possa essere utilizzato quale terreno vegetale anche per recuperi ambientali avendo caratteristiche fisico-chimiche-agronomiche ben diverse dal fango tal quale (fig. 5). Non potendo,in Italia, fare riferimento ad una normativa ad hoc per i terreni vegetali, si è dovuto pensare di riferirsi comunque a due diverse normative: la 471/99, per la “bonifica dei siti inquinati”, ed alla 748/84, per gli “ammendanti” dei terreni. Entrambe queste normative presentano delle limitazioni rispetto al prodotto ottenuto, in particolare:

    la 471/99 non è direttamente applicabile in quanto il fango trattato, da bonificare, non è considerato direttamente pertinente con il sito in cui si andrà a riposizionare il materiale terroso ottenuto dalla sperimentazione. Infatti il fango di segagione è lo scarto prodotto dal trattamento dei blocchi estratti in cava e lavorati altrove, in stabilimento; pertanto, subisce un trattamento industriale prima di essere bonificato e non può quindi essere considerato direttamente “terreno da sottoporre a bonifica”.

    la 748/84 non può essere direttamente applicabile in quanto, scopo della presente

    ricerca non è quello di ottenere un materiale ammendante, da utilizzare per fertilizzare un terreno naturale preesistente, ma bensì è quello di ottenere ex novo un terreno “naturalizzato” già piantumabile e rinverdibile. La 748/84 impone infatti limiti molto rigidi per il contenuto di frazione organica nel prodotto, mentre tali limiti sono tuttavia troppo alti nel caso di un terreno naturale da rinverdire.

    Oltre alle due normative citate, il prodotto ottenuto dal trattamento di bioremediation presso ACEA, dovrà beninteso soddisfare i limiti, in base ai risultati dei test di cessione, imposti dal DM 5 febbraio 1998. Una volta che risultassero soddisfatti i limiti relativi alle citate normative, sarà possibile procedere allo spandimento di tali prodotti sul terreno indicato in autorizzazione. In particolare si prevede di impiegare 60 m3 di materiale (15 m3 per ogni miscela) da stendere per il recupero ambientale della ex-discarica di inerti degli anni ’70, posta a valle della cava di gneiss denominata “Cava del Tiglio”, in loc. Prà del Torno nel Comune di Rorà (TO) (fig. 6). La restante parte verrà invece utilizzata, beninteso a seguito di opportuna autorizzazione da parte della Provincia di Cuneo, per il recupero ambientale di Loc. Ortioli in Comune di Bagnolo Piemonte (CN).

    Figura 5: cumuli lotti A e C presso gli stabilimenti del Gruppo ACEA di Pinerolo (fase

    maturazione lenta)

    Figura 6: “Cava del Tiglio” loc. Prà del Torno nel Comune di Rorà (TO), sulla quale verrà steso il materiale prodotto. In basso si può notare un precedente recupero ambientale

    eseguito utilizzando il compost prodotto presso gli impianti ACEA di Pinerolo

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    Risultati Al termine della sperimentazione si è potuto notare come alcuni dei parametri, quali i TPH, siano rientrati entro i limiti della 471/99; altri invece, quali il Co per le miscele A e B, Cr e Cu per la miscela C e Cu per la miscela D, risultano comunque fuori norma. Sono inoltre riportati i risultati inerenti le analisi eseguite in base alla 748/84, come modificata al 27/3/98, per poter valutare la qualità del materiale dal punto di vista organico/nutrizionale. In base a tale normativa si vede come i quattro prodotti presentino analisi entro i limiti imposti, eccezione fatta per parametri quali: contenuto di carbonio organico (%p/p s.s.), percentuale di acidi umici e fulvici (% s.s.) e rapporto C/N (solo per miscele A e C). Tali valori, sotto la soglia imposta dalla norma, non stupiscono affatto lo staff coinvolto nella ricerca; era oltremodo ottimistico pensare che il “terreno vegetale” prodotto potesse contenere percentuali di “organico” sufficienti a renderlo un prodotto utilizzabile quale fertilizzante, non dovendo dimenticare la marcata presenza di materiale “inerte” proveniente dai fini di segagione. In base ai risultati ottenuti dai test di cessione si evince inoltre come, solo il valore di nichel riguardante il lotto C risulti essere fuori limite. Tale valore tuttavia potrebbe essere tollerabile qualora si tenessero presenti alcuni fattori, quali:

    il DM 5/2/1998, non risulterebbe direttamente applicabile all'attività in oggetto perché è inerente alle procedure semplificate per il recupero dei rifiuti;

    il nichel è un elemento presente naturalmente nei terreni e nelle rocce piemontesi e non costituisce un elemento di pericolosità per la salute pubblica;

    le oscillazioni rispetto al valore limite sono molto vicine all'errore di rilevamento dello strumento di misura;

    il sito è un sito industriale. Riferimenti bibliografici ACEA Pinerolese, DST – Università degli Studi di Torino: Richiesta di Autorizzazione ex. Art. 29 d.lgs 2/97. Autorizzazione di impianti di ricerca e sperimentazione per valorizzazione fini di segagione. Relazione ed integrazioni (inedite). 2004-2005 CORIO E.: Opportunità di trattamento e di riutilizzo di fanghi di segagione lapidea per il recupero ambientale di siti di cava. Tesi di Laurea in Ingegneria Ambiente e Territorio – Politecnico di Torino. Marzo 2005 DINO G.A.: La gestione degli scarti dell’industria dei lapidei. Tesi di Dottorato di Ricerca in Geoingegneria Ambientale – Politecnico di Torino. Giugno 2004 FORNARO E., FORNARO M., DINO G. A.: Residual sludge management: hypothesis of an agricultural reuse. Primo Congresso AIGAA, Chieti 19 – 20 febbraio 2003 (Poster)

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    ASPETTI GEO-GIACIMENTOLOGICI DELLA MEDIA VAL TANARO E RISORSE LAPIDEE DEL COMUNE DI GARESSIO (CN): ANALISI STORICA, SITUAZIONE ATTUALE E PROSPETTIVE FUTURE

    Andrea GIULIANI, Mauro FORNARO Dipartimento di Scienze della Terra – Università degli Studi di Torino Lo scopo del lavoro è approfondire le conoscenze geologiche e giacimentologiche di un settore della media Valle Tanaro, in appartenenza al Comune di Garessio (Provincia Cuneo – Nord Italia), esempio di tradizione estrattiva del Monregalese risalente alla fine del XVI secolo. Grazie ai risultati delle diverse fasi di studio (carta giacimentologica, carta geologica e caratterizzazione fisico-chimica dei materiali), riportati in schede tecniche di sintesi, è stato possibile caratterizzare i diversi materiali litoidi e suggerirne i principali impieghi. In questo modo, si sono potuti definire i principi base per una possibile fase di prospezione giacimentologica.

    Analisi giacimentologica La storica cultura estrattiva del territorio di Garessio (CN) affonda le sue radici alla fine del XVI secolo (i materiali locali sono citati in un elenco autografo di re Carlo Emanuele I e utilizzati nella costruzione della sua celebre Galleria), per poi raggiungere il massimo splendore nel XVIII secolo grazie alla costruzione della strada Torino-Ceva. Gli impieghi di queste pietre ornamentali sono rintracciabili in opere di notevole pregio artistico della città di Torino, quali la Basilica di Superga e la Galleria del Beaumont a Palazzo Reale. Questa attività è stata determinante per l’economia locale dell’ ‘800 ed è proseguita fino agli anni ’50 del secolo scorso, come testimoniato da diversi siti di cava abbandonata; attualmente sono attive solo cave che estraggono massi da scogliera da accumuli a grossi blocchi. Tramite la redazione di una carta giacimentologica, si è fornita una collocazione geografica precisa dei vari siti, corredata da documentazione fotografica dei luoghi interessati. Le litologie interessate da coltivazione appartengono al dominio Brianzonese e a quello Piemontese e appartengono tutte alle unità tettoniche di Ormea e di Cerisola. In particolare, possiamo citare le “Dolomie di San Pietro dei Monti”, le “Quarziti di Ponte di Nava” e i “Calcari di Val Tanarello”, descritte nella parte geologica del lavoro (fig. 1). All’interno di queste formazioni geologiche sono state rintracciati tre tipi di pietre ornamentali, il marmo Bianco Statuario, il marmo Bardiglio Venato e il marmo Persichino (quest’ultimo nelle varietà marmo Rosso e marmo Rosso Brecciato), grazie alla realizzazione di sezioni levigate e attraverso fonti storiche. Dalle cave sono stati estratti i seguenti prodotti: • pietre ornamentali: la tipologia di cava più ricorrente è a

    mezza costa, con coltivazione a gradoni su diversi livelli e l’impiego di diversi metodi di abbattimento (filo+esplosivo);

    • materiale da calce: utilizzo dell’esplosivo e di limitati interventi manuali;

    • blocchi da scogliera: riprofilatura del versante tramite gradonatura dall’alto verso il basso.

    Figura 1: Colonna stratigraficaricostruita delle Unità del BrianzonesLigure s.s.

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    Si possono così definire dei “bacini estrattivi”: 1) Val Luvia: versante meridionale della valle omonima immediatamente a Ovest di Garessio,

    dove si concentrano le cave di massi da scogliera; 2) Grappiolo: dorsale Grappiolo-Costa di Maggio, dove troviamo tutte le coltivazioni di marmo

    Bianco Statuario; 3) Valchiosso: valle laterale in destra idrografica del Tanaro, sede della totalità delle attività

    estrattive legate al marmo Persichino e al marmo Bardiglio. Non compresa in questi settori, la cava Pian Bernardo si colloca alla testa della Rocca d’Orse: essa presenta le migliore condizioni giacimen-tologiche per una possibile ripresa della coltivazione dei materiali del bacino Valchiosso (fig. 2). Per il marmo Bianco Statuario, l’assetto strutturale del sito Valdinferno permette una maggior disponibilità di materiale di buona qualità.

    In merito alle potenzialità future del settore estrattivo garessino, è state valutate le possibilità di coltivazione delle quarziti (silice) per uso industriale. A tal fine sono stati selezionati siti di diverse località (Valdinferno Valchiosso Barchi-Torre Saracena), la cui individuazione tiene conto di: accessibilità dell’affioramento, abbondanza di materiale; qualità del materiale.

    Studio geologico Il settore rilevato è una finestra significativa sulla geologia delle unità brianzonesi all’interno delle Alpi Liguri, in quanto è geologicamente rappresentativo di molte unità caratteristiche di questa parte della catena alpina. Sulla base del confronto delle serie stratigrafiche delle diverse unità con quella del «Brianzonese classico», conviene distinguere unità a facies brianzonese (Brianzonese ligure s.s.) e unità ad affinità brianzonese (prepiemontese). Il rilevamento geologico ha portato alla realizzazione di una carta geologico-interpretativa a scala 1:10000 dei due settori di maggior interesse giacimentologico del Comune di Garessio, la Valdinferno e la Valchiosso (fig. 3). È stata ricostruita una successione ideale delle diverse unità a facies Brianzonese Ligure s.s.: tra queste solo un’unità sviluppa una serie stratigrafica relativamente completa, dal Carbonifero-Permiano al Malm, nei suoi vari termini ben correlabile con quella del Brianzonese classico, ed è denominata «unità di Ormea» (in posizione tettonica più profonda). Accavallate su di essa, si trovano altre due unità ridotte: l' «unità di Caprauna» (mancano le facies del Dogger, del Cretaceo superiore e dell' Eocene) e l’«unità di Cerisola-Castelvecchio» (mancano le facies triassiche e del Dogger). L’unica unità ad affinità brianzonese (prepiemontese) è definita come «unità di Arnasco-Castelbianco»: consta di una successione compresa tra il Trias superiore e l'Eocene e non riveste alcuna importanza ai fini giacimentologici. Le diverse unità sono rappresentate nello schema strutturale di sintesi annesso alla carta geologica.

    Figura 2: Fronte principale della Cava Pian Bernardo, Garessio (CN). si noti il contatto tra i due materialiBardiglio Venato (a sinistra) e Persichino (a destra)

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    Le correlazioni tra il rilevamento geologico e l’analisi giacimentologica hanno evidenziato i seguenti dati tettono-stratigrafici, utili per la prospezione dei materiali lapidei:

    • il marmo Persichino è connesso a un livello al tetto della formazione delle “Dolomie di San Pietro dei Monti”, solo quando è sormontata dai “Calcari di Rio di Nava”;

    • esclusivamente i “Calcari della Val Tanarello” appartenenti Per quanto riguarda la prospezione delle quarziti al fine di estrarre sabbie silicee, sono stati individuati cinque siti con caratteristiche giacimentologiche accettabili; nel capitolo successivo, in base alle analisi chimiche, sarà possibile restringere il campo d’indagine.

    Caratterizzazione fisica All’interno del settore studiato sono stati descritti macroscopicamente (sezione lucida) e microscopicamente (sezione sottile) sei materiali lapidei ornamentali. Su tre di essi (fig. 4), Persichino, Bardiglio Venato e Bianco Statuario, sono state eseguite le seguenti prove di laboratorio, secondo metodi standard (norme UNI, ASTM, ISRM): resistenza alla compressione monoassiale, resistenza a flessione mediante trazione indiretta, resistenza al gelo, microhardness KNOOP (tabella 1). Il marmo Persichino ha dato una risposta mediocre alla segagione, una bassa resistenza all’usura, una scarsa attitudine alla lucidatura, una ridotta resistenza a carichi verticali e una resistenza alla trazione molto bassa. Le sollecitazioni di pressione potrebbero, comunque, agire in maniera differenziata sui diversi componenti della breccia (clasti e matrice), alterandone l’aspetto e la

    Figura 3: Carta geologico-interpretativa del settore giacimentologicamente più interessante del

    Comune di Garessio (CN)

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    funzionalità. È preferibile applicarlo nella realizzazione di manufatti o elementi decorativi di piccola dimensione (specchiature), prediligendo gli usi interni.

    Il marmo Bardiglio Venato è un materiale che ha una resistenza all'usura e una lavorabilità molto buone da cui si ottiene un’ottima lucidatura. Dai valori relativi alle caratteristiche meccaniche (buona resistenza a compressione monoassiale e discreta resistenza alla trazione) il prodotto può essere indicato per il supporto di carichi limitati e per la realizzazione di rivesti- menti per il supporto di carichi limitati e per la realizzazione di rivestimenti verticali e orizzontali. Date le mediocri caratteristiche estetiche, gli utilizzi sono legati elementi di arredo urbano (es.: pavimentazioni, lastricatura e elementi soggetti a usura in generale). Il marmo Bianco Statuario è risultato tra tutti i marmi indagati quello che presenta le caratteristiche migliori per una sua collocazione artistico-monumentale: buona resistenza all’usura, buona attitudine alla lucidatura e buona risposta alla segagione. La resistenza alla compressione monoassiale (77 MPa) rimane in linea con i marmi dell’area geografica da cui proviene, rendendolo adatto per elementi portanti di piccole dimensioni (es.: capitelli). Il valore ricavato di resistenza alla trazione (20,5 MPa) rende possibile l’impiego in rivestimenti verticali.

    Tabella 1: Confronto tra i marmi di Garessio e altri marmi italiani. 1 CALENZANI L. (1988) – “Manuali dei marmi pietre e graniti” 2 A.A. V.V. (1982) – “Marmi italiani – Guida tecnica.” 3 PRIMAVORI P. (1997) “I materiali lapidei ornamentali: marmi, graniti e pietre”.

    Figura 4: Sezioni lucide dei materiali sottoposti a caratterizzazione fisica.

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    Per completare il quadro delle prove, sono state realizzate delle analisi chimiche (in relazione ai tenori in ferro) su campioni di quarzite prelevati dai siti indicati, al fine di valutare le reali potenzialità di questi ultimi. Le quarziti della Valdinferno (sito con le migliori caratteristiche giacimentologiche) possono essere impiegate per la produzione di vetro bianco (ottico), mentre quelle della Valchiosso possono essere impiegate solo per il confezionamento di vetri leggermente colorati (mezzobianco e ambra) (limiti forniti da DPAE Regione Piemonte).

    Conclusioni Al termine di questa analisi giacimentologica è possibile affermare che il territorio di Garessio risulta particolarmente “ricco” in termini di materiale di tipo ornamentale e di tipo industriale. Appare evidente che la ricchezza di materiali ornamentali debba essere tutelata, poiché lo sfruttamento di questi giacimenti rappresenta l’unica possibilità di reperire il materiale per lavori di restauro di opere realizzati con questi marmi. Per questo, si potrebbe riutilizzare il materiale posto a discarica nei pressi di alcune cave individuate sul terreno: questo può essere idoneo sia per le necessità di restauro, sia per lavorazioni che portano alla realizzazione di manufatti di piccole dimensioni, ottenendo indirettamente sia una risistemazione di accumuli e sia una forma di recupero ambientale. Con uno sforzo maggiore da parte di tutti, sarebbe doveroso rilanciare le realtà locali, proponendo un artigianato di nicchia: si renderebbe possibile uno sfruttamento dei giacimenti per il restauro e una valorizzazione delle risorse naturali.

    Riferimenti bibliografici BADINO V., BOTTINO I., BOTTINO G., FORNARO M., FRISA MORANDINI A., GOMEZ SERITO M., MARINI P. (2001) “Valorizzazione delle risorse lapidee del bacino estrattivo dei marmi del Monregalese” Giugno-Settembre 2001 GEAM, Torino. BADINO V., GOMEZ SERITO M. (1999) - I marmi del Monregalese. I marmi policromi negli altari alla romana delle Valli Monregalesi. In: G.Galante Garrone, A.Griseri, S.Lombardini, L.Mamino, A.Torre – “Le risorse culturali delle Valli Monregalesi e la loro storia”, Comunità montana Valli monregalesi, Savigliano BARELLI V. (1835) – “Cenni di Statistica Mineralogica degli Stati S.M. il Re di Sardegna” Tip. G. Fodratti, Torino. BONI A., VANOSSI M., CERRO A., GIANOTTI R. (1971) – “Note illustrative della Carta Geologica d’Italia: Foglio 92-93 (Albenga-Savona”). 2a Ed., Servizio Geologico d’Italia., Ist.It. Arti Grafiche, Bergamo. FIERRO G., VANOSSI M. (1965) – “Nuovi elementi per la stratigrafia del Brianzonese Ligure tra il T. Corsaglia e il T. Pennavaira” Atti Ist. Geol. Univ. Pavia, XVI, Pavia. FIORA L., ALCIATI L., BORGHI A., CALLEGARI G., DE ROSSI A. (2002) – “Pietre piemontesi storiche e contemporanee.” L’Informatore del Marmista, 41, n.491, 36-41. FORNARO M. (1998) – “La coltivazione delle cave ed il recupero ambientale” Volumi I e II, Politeko Edizioni, Torino. PERETTI L. (1938) – “Rocce del Piemonte usate come pietre da taglio e da decorazione.” Marmi pietre e graniti, XVI, 2, Carrara. PIERI, M. (1964) “I marmi d’Italia – graniti e pietre ornamentali” – Hoepli, Milano. PRIMAVORI P. (1997) – “I materiali lapidei ornamentali: marmi, graniti e pietre.” Edizioni ETS. VANOSSI M. (1965) – “Le unità stratigrafìco-strutturali tra il pizzo d'Ormea e il monte Galero (Alpi marittime)”. Atti Ist. Geol. Univ. Pavia, XVI, Pavia.

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    CARTA GEOLOGICA DEI MARMI E DELLE PIETRE ANTICHE NEL BACINO MEDITERRANEO

    Laura FIORA, Luca ALCIATI Dipartimento di Scienze Mineralogiche e Petrologiche – Università di Torino

    Il bacino del Mediterraneo e i paesi prospicienti rappresentano l’area geografica con la più alta concentrazione di materiali lapidei che l’uomo ha diffusamente utilizzato fin dalle epoche storiche più remote. Inizialmente con il termine “marmo” si indicò qualsiasi roccia “brillante”, cioè suscettibile di politura (levigatura/lucidatura). Sotto tale denominazione venivano pertanto raggruppate sia tutte le rocce carbonatiche, compresi i marmi in senso petrografico, sia le rocce silicatiche, cioè i “graniti”: per esempio, il Marmo Troadense, coltivato in Turchia, è un “granito”, petrograficamente classificato come quarzomonzonite, mentre il Marmo Claudiano proveniente dall’Egitto è una metatonalite, cioè una roccia magmatica intrusiva classificabile come tonalite, successivamente metamorfosata. Il termine usato per indicare altri materiali silicatici era quello di “pietra” (lapis): il Granito di Assuan fu detto Lapis Pirrhopoecilus, la Pietra Bekhen Lapis Basanites, il Porfido Egiziano Lapis Porphirites. Una pietra era però anche l’alabastrite egiziana (Lapis Alabastrites o Alabastro Orientale). La coltivazione dei materiali lapidei, anche se con tecniche rudimentali, iniziò in epoca assai antica. Nelle Cicladi, ad esempio, già quattromila anni prima di Cristo gli abitanti estrassero il marmo per produrre piccole statue. Successivamente il marmo e molti altri tipi di rocce furono usati anche in architettura. L’Egitto, in particolare, fu paese produttore di molte rocce magmatiche intrusive ed effusive, oltre che metamorfiche, ma anche di molti calcari e arenarie affioranti su larghe porzioni del territorio, mentre la Grecia produsse diverse varietà di marmi, soprattutto quelli definibili tali in senso petrografico, cioè calcari ricristallizzati per metamorfismo. L’uso di marmi e pietre si diffuse in tutte le regioni affacciate sul bacino mediterraneo, dove erano facilmente trasportabili per via d’acqua, soprattutto quando molti dei paesi bagnati dal mare o limitrofi si trovarono sotto la dominazione romana. In epoca imperiale si usarono molti tipi di rocce: tra le varietà di marmi bianchi si annoverano varietà turche (ad esempio il celebre Marmo Proconnesio), greche (quali il Pentelico e il Paros) e tra quelle italiane il marmo di Carrara (marmo lunense), che venne presto ad acquisire un ruolo primario per le sue specifiche proprietà chimico-mineralogiche. Il colore, l’omogeneità, la grana fine, tutte caratteristiche legate all’ambiente geologico di formazione, lo resero idoneo a molteplici usi, sì che esso diventò il marmo per eccellenza delle opere di scultori e architetti celeberrimi. Diffuso inizialmente a livello interprovinciale nella Roma Imperiale ( Lazzarini, 2004a), esso acquisterà con il tempo sempre maggior importanza fino a giungere alla diffusione planetaria contemporanea. Sotto l’impero romano in molte località di diversi paesi furono coltivati marmi bianchi usati a scala regionale (ad esempio, in Piemonte, molte lenti marmoree provenienti da diverse unità geologiche divennero importanti: tra essi si ricordano il marmo della valle Susa e diverse varietà provenienti dal Cuneese). Nello stesso tempo in queste regioni giungevano i marmi più famosi di tutto il bacino mediterraneo. Sovente reimpiegati in costruzioni medioevali, i marmi bianchi sono spesso indistinguibili dal punto di vista macroscopico e solo lo studio petrografico consente di attribuirne l’origine. La prima analisi che il petrografo conduce su questi materiali è lo studio della sezione sottile al microscopio ottico, sì da definire la composizione mineralogica fondamentale: talora, soprattutto l’identificazione delle fasi accessorie, può essere utile per risalire all’unità geologica di appartenenza, unitamente alla definizione delle dimensioni dei granuli cristallini, alla loro forma e al tipo di contatto tra granuli. Spesso però questa analisi si rivela insufficiente, perché i marmi puri, macroscopicamente quelli più bianchi e più pregiati, sono assai simili tra di loro. La sezione sottile viene perciò ulteriormente indagata al microscopio elettronico a scansione, che consente di definire il chimismo delle singole

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    fasi minerali, fondamentali, accessorie e secondarie, sia per quanto riguarda gli elementi chimici maggiori, sia per quelli in traccia. In alcuni casi risulta necessario indagare con tecniche più sofisticate, utilizzando contemporaneamente diverse metodologie analitiche, quali, ad esempio, la catodoluminescenza e la determinazione isotopica (Barbin et al., 1992; Capedri & Venturelli, 2004; Lazzarini et al., 1980; Lazzarini 2004b, con riferimenti bibliografici). In questo modo risulta possibile, mediante l’integrazione delle diverse metodologie analitiche, l’attribuzione certa del marmo ad una unità geologica, in certi casi anche ad una singola cava. La grande varietà di marmi bianchi è esemplificata in tabella 1.

    Tab. 1 -Esempi di marmi bianchi del bacino mediterraneo (Da: Lazzarini, 2004a, Lintz et al., 1991, Pieri, 1964)

    Paese Località Denominazione d’uso Italia Carrara Marmo di Carrara Italia Musso (Como) Marmo di Musso Italia Crevoladossola (Piemonte) Marmo di Crevola Italia Foresto e Chianocco

    (Piemonte) Marmo della Val di Susa (di Chianocco e Foresto)

    Italia Pont Canvese (Piemonte) Marmo Pontico Italia Praly, Perrero, Salza Marmi del Pinerolese o della

    Val Germanasca o Gaggini Italia Brossasco, Paesana, Garessio,

    Frabosa (Piemonte) Marmi del Cuneese (di

    Brossasco,….) Italia Rassa (Piemonte) Marmo di Massucco Italia Lasa (Alto Adige) Marmo di Lasa

    Francia Saint-Béat (Pirenei) Marmo di Saint Béat Francia Villette (Savoia) Marmo di Villette Svizzera Saillon (Vallese) Marmo di Saillon Spagna Macael e Alconera Marmi di Macael e di Alconera

    Portogallo Estremoz-Vila Vicosa Marmo di Estremoz Algeria Filfila, Cap de Garde,

    Medjerda, Chemtou Marmo di Filfila, de Cap de

    Garde….. Macedonia Vardar Marmo Sivec Romania Bucova-Ruschita Marmi di Bucova… Bulgaria Berkovica e Malko-Tornova Marmi di Berkovica… Grecia Thasos, Paros, Naxos,

    Pentelico, Dolina Marmi di Thasos, di Paros…

    Turchia Marmara, Afyon, Usak, Sardes, Belevi, Selcuk, Priene,

    Aphrodisias, Akbuk, Herakleia, Milas

    Marmo di Marmara (Proconnesio), di Afyon,….

    Ungheria Pohorje (Ptuj) Marmo di Pohorjie

    Oltre ai marmi bianchi, fin dall’antichità furono utilizzati marmi colorati, petrograficamente definibili sia come rocce metamorfiche, sia come rocce sedimentarie (De Nuccio & Ungaro, 2002; Gnoli, 1988; Lazzarini, 2004a; Pensabene & Bruno, 1998; Pieri, 1964). Spesso ad un nome solo corrispondono più zone di provenienza: ad esempio, con il termine di Nero Antico si indicano calcari carboniosi che furono anticamente coltivati in Tunisia (Chemtou, Gebel Azeiza, Thala), Grecia (Capo Tenaro e Chio), Turchia (Adapazari) e nel Lazio ( Palombino).

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    Il colore e/o il disegno dei “marmi colorati” fecero sì che fossero molto ricercati e spesso sfruttati fino ad esaurimento del giacimento. Già in passato ebbero grande valore i “marmi verdi”: l’esempio più celebre è la roccia metaoficalcitica proveniente dalla Grecia (Marmo Verde Antico, Marmo Tessalico). Di grande utilizzo furono anche i “graniti”, intensamente sfruttati in Egitto, coltivati in altri paesi (ad es., Turchia, Italia e Germania). Tra le più celebri varietà egiziane si ricordano il Granito di Assuan, la Diorite di Assuan, la Pietra Becken e il Marmo Claudiano. I graniti italiani provengono dalla Sardegna, isole toscane e Calabria. In Germania fu coltivato il Granito del Felsberg. Le “pietre” ebbero talora grande valore ornamentale (la più celebre estratta in Italia è la Pietra Paesina), ma spesso furono usate come materiale da costruzione. Una pietra (“lapis) di grandissimo pregio fu il “Porfido”, estratto in Egitto, la cui varietà rossa fu detta “imperiale” perché riservata all’imperatore. Il Porfido Verde Antico di Sparta è una vulcanite (andesite) di grande valore ornamentale. Tra i “porfidi” estratti in altre località si ricorda il Porfido Bigio (Granito a Morviglione) coltivato in Francia. Tutte queste rocce (marmi, graniti, pietre) provengono da diverse unità geologiche di differente età: tra le più antiche si annoverano, ad esempio, le rocce ignee egiziane, tra le più recenti i travertini e le alabastriti. In ogni caso l’uomo nelle diverse epoche storiche, da qualsiasi substrato geologico, ha saputo ricavare i materiali lapidei cui ha consegnato la memoria dei tempi attraverso svariate realizzazioni di scultura ed architettura. Un patrimonio storico ricco di moltissime varietà di rocce e un patrimonio di conoscenze sull’estrazione, lavorazione e utilizzo delle pietre rendono il bacino del Mediterraneo e i vicini paesi che ne hanno risentito dell’influenza una regione unica al mondo. Per i riferimenti bibliografici vedasi l’allegata carta geologica pubblicata in: Fiora L. & Alciati L. (2005) – Marmi e pietre antiche nel bacino mediterraneo. L’Informatore del Marmista. Giorgio Zusi Editore Verona, 521, 20-27, con allegata carta geologica

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    CARTA GEOLOGICA DELLE ROCCE EGIZIANE

    Laura FIORA, Luca ALCIATI Dipartimento di Scienze Mineralogiche e Petrologiche – Università di Torino La carta geologica riporta le località di estrazione delle numerose varietà di rocce egiziane estratte storicamente (vedasi, ad esempio, Aston, 2000), la cui importanza è legata a celeberrimi utilizzi in architettura e scultura: calcari nelle Piramidi a Giza, arenarie silicizzate nei Colossi di Mennon, plutoniti varie nei reperti di collocazione museale, quali, ad esempio, quelli conservati presso il Museo del Cairo, comprendenti statue, vasi, sarcofaghi e stele, che furono classificati all’inizio del Novecento come calcari (di gran lunga prevalenti), graniti, alabastriti, arenarie, basalti, serpentiniti, marmi, porfidi e scisti (Maspero, 1903). Si tratta di una grande varietà di rocce impiegate nei diversi periodi della storia egiziana, coltivate dai Romani, diffuse come materiali di reimpiego in tutto il bacino mediterraneo e anche in paesi più lontani, talora ancora in coltivazione ai giorni nostri. Le tracce delle antiche estrazioni, al pari del loro utilizzo, rappresentano un patrimonio storico-culturale di grande rilevanza, da conservare e valorizzare come “patrimonio culturale di tutta l’umanità”. Tra i “marmi” molto abbondanti sono le rocce carbonatiche chimiche (calcari), affioranti estesamente nel paese, la cui coltivazione è molto antica (Aston et al., 2000; Lucas, 1962; Fiora & Alciati, 2005 con rif.biblio.). Alcuni sono calcari micritici omogenei, altri sono tipici per la presenza di stiloliti o per l’abbondanza di fossili. Essi sono di diversa età (da Paleocenica ad Eocenica) e provengono da diverse formazioni. Un marmo in senso petrografico (cioè un calcare ricristallizzato per metamorfismo) è la varietà da bianca a venata a brucite e dolomite, proveniente dal Gebel Rokham nel Deserto Orientale. Anche le rocce sedimentarie terrigene (“pietre”, arenarie) furono coltivate in passato in diverse varietà, già sfruttate in epoca faraonica e successivamente in epoca romana: si ricorda, ad esempio, la celebre “Pietra Bekhen”, una grovacca debolmente metamorfosata di colore verde scuro o nero, suscettibile di bella lucidatura (Harrell & Brown, 1992; Alciati & Fiora, 2004 con rif. biblio.). Le arenarie nubiane sono le rocce tipiche dell’Alto Egitto, usate nei templi tolemaici (ad esempio, Dendera), coltivate a El-Silsihah, Edfu e svariete loca