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Banca e impresa in Italia:caratteri evolutivi del relationship lending e sostegno dello sviluppo
Rocco Corigliano*
1. Il nesso fra finanza e sviluppo e la centralità della banca
2. Teoria e prassi del relationship lending 2.1 La banca e il vantaggio informativo «assoluto» e «relativo»2.2 Il vantaggio «relativo» e lo sviluppo del relationship lending
2.2.1 Il fenomeno dell’hold-up o cattura del debitore2.2.2 Il grado di concentrazione del mercato e la concorrenza2.2.3 Il fenomeno del soft budget constraint ovvero la cattura del creditore
2.3 Evidenza empirica e relationship lending in Italia
3. Caratteri evolutivi del relationship lending e crescita delle imprese
«Le banche non sono fatte per pagare stipendi ai loro
impiegati e per chiudere il proprio bilancio con un saldo utili;
ma devono raggiungere questi giusti fini soltanto col servire nel
miglior modo il pubblico»
Relazione della BI 1945, p. 48Governatorato di Luigi Einaudi,
in P.Baffi, Testimonianze e ricordi,Memoria sull’azione di Einaudi,
Libri Scheiwiller, 1990
* Professore Ordinario di Economia degli intermediari finanziari nell’Università di Bologna
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1. Il nesso fra finanza e sviluppo e la centralità della banca
Il contributo che segue intende rispondere ai seguenti quesiti: può la banca (la finanza)
influenzare positivamente il processo di crescita dell’impresa («l’industria» ) nel cammino del
recupero di competitività che appare essere oggi sempre più necessario? In tale contesto è ancora
«centrale» l’attività creditizia svolta dalla banca moderna? Come si raccorda questa «centralità» con
le modifiche normative e strutturali che investono il nostro sistema finanziario, ed , infine, quali
caratteri deve assumere l’evoluzione del relationship lending per divenire funzionale alla crescita
dell’impresa ed assumere il connotato proprio del relationship banking ?
La risposta a tali quesiti, solo in apparenza retorici, se si pensa alla relativa «giovinezza»
delle teorie che hanno superato l’impostazione neoclassica sulla moneta e sul credito [J.R.Hicks
1935] ed a quelle che hanno posto il problema della «neutralità» della struttura finanziariad’impresa [Modigliani e Miller 1958], poggia sulle seguenti basi concettuali e constatazioni
empiriche:
- esiste un nesso causale e biunivoco fra finanza e sviluppo, «troppo ovvio per essere
messo in discussione» [Miller 1998], che nasce dalle pionieristiche intuizioni di
Schumpeter1 e si affina nel corso del tempo con i contributi degli storici economici da
un lato (Goldsmith, Gerschenkron, Cameron e, più recentemente, Zamagni e Ciocca)
e della teoria economica dall’altro (Hicks, Keynes, Tobin, Gurley e Shaw, fino a
giungere alla moderna teoria dell’intermediazione finanziaria avviata da Leland e Pylee sviluppata in seguito, tra gli altri, da Fama, Diamond, Stiglitz e Weiss, Sharpe e
Thakor)2.
-
Struttura e funzioni del sistema finanziario possono giocare un ruolo determinante ai
fini della «qualità» dello sviluppo economico: non è dunque indifferente il divenire di
ciascun sistema finanziario nazionale che, generalmente, parte da una configurazione
bank based piuttosto che market based . A questo specifico riguardo va osservato, in
primo luogo, che c’è una sorta di convergenza fattuale che caratterizza l’evoluzionerecente dei sistemi evoluti e che si concretizza nel securitized financial system 3: per il
nostro sistema finanziario, ciò significa che la sua evoluzione passa necessariamente
attraverso una crescita dei mercati4 ; a questo proposito è opportuno ribadire che non
esistono controindicazioni alla complementarietà tra banche e mercati poiché gli ovvi
ed inevitabili conflitti di interesse, insiti nell’operare congiunto sui mercati e nei
confronti delle imprese, possono essere gestiti con un’adeguata sorveglianza
sull’applicazione delle norme di correttezza e trasparenza già in vigore. In secondo
° Una versione ridotta del presente contributo è stata pubblicata negli Atti del Convegno 2006dell’Accademia italiana di economia aziendale (Aidea)
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luogo va rilevato che non è stato ancora risolto il dilemma se, ai fini dello sviluppo
armonico del sistema economico nel suo complesso, sia più confacente l’una o l’altra
configurazione ( bank based vs. market based). Ad oggi i filoni di studi che hanno
affrontato il tema e che sono riconducibili: i) alle implicazioni dello stato e/o della
qualità delle innovazioni [Allen 1993; Mayer 1996]; ii) a quelle relative alla natura ed
alla ripartizione dei rischi, in relazione alle preferenze del contesto sociale [Allen e
Gale 1994]; iii) infine, alla relazione che sussiste col quadro regolamentare, con
particolare riferimento al grado di protezione degli investitori privati rispetto alla
Stato (regimi di common piuttosto che di civil law, Beck-Demirguc-Levine 2001) non
sono riusciti a dare una risposta univoca alla domanda dei policy makers sulla
configurazione più efficiente ai fini dello sviluppo. Quale che sia l’evoluzione di
questi studi e dei correlati sforzi empirici, crediamo che gli intermediari bancari
continueranno a svolgere un ruolo centrale come «motori» dello sviluppo, tanto più
se sapranno sfruttare i progressi tecnologici in atto e contenere sempre più i costi
delle informazioni e delle transazioni e, più in generale, migliorare l’efficacia dei loro
interventi, a partire da quelli direttamente legati al sostegno degli investimenti
(credito, consulenza finanziaria e finanza mobiliare).
- Ai fini della evoluzione del sistema finanziario, principalmente nel senso del financial
deepening di Gurley e Shaw, contano sia gli interventi pubblici (la «politica»), sotto
forma di interventi normativi e di vigilanza, sia lo stato della diffusione della cultura
finanziaria presso gli operatori economici: mentre i primi hanno effetti immediati e
pervasivi (si pensi all’impatto delle direttive comunitarie in materia monetaria,
bancaria e finanziaria all’interno dell’UE quali quella sui mercati degli strumenti
finanziari – MiFid - od a quella sui requisiti patrimoniali – Basilea 2 -, entrambe in
vigore dal 2007) per il secondo occorrono evidentemente tempi più lunghi che
possono però essere influenzati dalla banca stessa, come si vedrà meglio in seguito.
-
Il fulcro su cui poggia l’intero impianto della influenza in discorso è, per solito, il
prestito bancario: ciò è vero, in specie, per i paesi che hanno una storia finanziaria
bank based ma lo è in particolare per il nostro Paese a ragione delle caratteristiche
dimensionali5 delle imprese e, simmetricamente, delle banche che ne hanno molto
spesso accompagnato la nascita e, meno spesso, lo sviluppo. Sotto il profilo del
«peso» dei prestiti bancari nella struttura finanziaria delle imprese italiane è sufficiente
ricordare che i debiti finanziari rappresentano ancora larga parte delle passività
finanziarie delle imprese; azioni e partecipazioni, dopo un sensibile incremento nel
decennio dal 1975 al 1985, fino a superare il ricorso ai capitali di terzi, si sono
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successivamente attestate poco al di sotto della metà del totale; i debiti bancari, in
particolare, rappresentano all’incirca i tre quarti dei debiti finanziari e sono per lo più
a medio lungo termine (anche grazie allo sforzo di ristrutturazione dei debiti favorito
dalle intense relazioni con le banche6 ); le differenze con le strutture finanziarie delle
imprese localizzate negli altri paesi dell’UE non sono più significative7; restano ampie,
anche se in attenuazione, le differenze coi paesi anglosassoni, in particolare per quel
che riguarda la raccolta sui mercati obbligazionari8.
-
Proprio per le caratteristiche della nostra struttura produttiva, la «relazione» che si
instaura col prestito deve evolvere verso un rapporto che, accanto agli interventi
tradizionali, veda sempre più la presenza di servizi «sofisticati» volti a far maturare la
gestione finanziaria delle imprese fino a far assumere loro una struttura ed un assetto
finanziario in grado di garantire un vero e proprio salto dimensionale ma anche e
soprattutto, un carattere manageriale alla gestione ed un assetto di governance più
formalizzato. Detto in altri termini, bisogna che il regime di relationship lending , che
attualmente caratterizza una larga parte del nostro mercato dei prestiti bancari, evolva
verso un regime con maggiori contenuti di finanza sofisticata, propria del corporate
banking , che possiamo definire di relationship banking 9. Non si tratta di una moda
passeggera né tanto meno di una modifica solo nominalistica, bensì di un’ineludibile
strategia operativa della banca che si concilia: i) con il tentativo di fronteggiare una
crescente competizione sui mercati bancari, specie quelli dei prestiti e di fidelizzare la
clientela; ii) col progresso tecnologico e regolamentare recente ed ancora in corso, il
quale spinge verso un utilizzo sempre più ampio dell’ hard information in luogo della
soft information , favorendo con ciò la possibilità di un avanzamento sostanziale della
natura e della qualità del tradizionale relationship lending 10; con la domanda, spontanea o
«imposta», di servizi finanziari più sofisticati (ed a maggior valore aggiunto) che
portino più diffusamente le imprese, sperabilmente, anche all’uso della finanza
mobiliare. Per quel che riguarda l’impresa, l’auspicata evoluzione del rapporto con la
banca, nella misura nella quale coincide con l’evoluzione della sua gestione
finanziaria, non può che agevolarne la crescita dimensionale e manageriale, premesse
indispensabili per un deciso e significativo recupero di competitività.
2. Teoria e prassi del relationship lending
2.1 La banca e il vantaggio informativo «assoluto» e «relativo»
L’attività di concessione dei prestiti è storicamente quella che ha maggiormente
caratterizzato l’operatività bancaria, in particolare nei sistemi finanziari che poggiano l’attività diintermediazione principalmente sulle banche. La moderna teoria dell’intermediazione finanziaria,
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basata sulle asimmetrie informative tra datori e prenditori di fondi, pone una particolare enfasi su
quest’aspetto della gestione bancaria sia per giustificare l’intervento degli intermediari sia,
soprattutto, per evidenziare, sul fronte degli impieghi, la specificità della banca. Secondo le
impostazioni teoriche più recenti, la banca si afferma come meccanismo allocativo più efficiente
rispetto al mercato, perché può godere della disponibilità di informazioni riservate e dei vantaggi
collegati all’approccio alla clientela cosiddetto «relazionale» ( relationship lending ), basato su rapporti
stabili e di lungo termine. E’ proprio nell’ambito delle cosiddette «relazioni di clientela» che il
credito bancario crea maggior valore, sia per la banca che per le imprese finanziate, grazie alle
connesse attività di selezione ( screening ) e controllo ( monitoring ) dei richiedenti e di trasformazione
delle scadenze ( liquidity trasformation ).
Più un generale, nella moderna teoria dell’intermediazione finanziaria ritroviamo
sostanzialmente due correnti di pensiero:
-
secondo la prima, la banca disporrebbe di una «tecnologia» di valutazione dei rischi
creditizi più efficiente (tesi del vantaggio comparato «assoluto», che renderebbe il
credito bancario meno costoso rispetto alle altre fonti di finanziamento;
- la seconda corrente di pensiero, invece, esclude un vantaggio competitivo al
momento del primo contratto col potenziale nuovo affidato e, partendo dalla
constatazione che il rapporto col cliente si protrae generalmente per un lungo
periodo di tempo, ipotizza che la banca ottenga al passare del tempo l’accesso a
informazioni riservate. Questo bagaglio di informazioni, acquisito gradualmente e
progressivamente grazie al rapporto confidenziale col cliente, frutto della lunga
consuetudine con lo stesso, costituirebbe il vantaggio competitivo della banca rispetto
agli altri possibili finanziatori (tesi del vantaggio comparato «relativo»).
Entrambi i filoni teorici debbono l’intuizione della specificità del credito bancario a Fama
(1985), il quale osserva che, in mercati perfettamente concorrenziali, la sopravvivenza delle banche
dipende dalla possibilità di traslare, sui depositanti o sugli affidati, l’imposta occulta costituita dalla
riserva obbligatoria. Da questa osservazione discendono due considerazioni: i) poiché anche
imprese di elevato standing creditizio ricorrono stabilmente al credito bancario, il rapporto con la
banca evidentemente deve «creare valore» anche per le imprese, non solo per le banche; ii) poiché
queste ultime non sembrano avere concorrenti temibili nel circuito indiretto del credito, la
«tecnologia produttiva» utilizzata deve assicurare loro un vantaggio comparato rispetto agli altri
intermediari.
Fama spiega il primo punto ipotizzando la produzione di informazione riservata da parte
delle banche. Per analogia con l’inside e l’outside equity di Jensen e Meckling [1976], il credito
bancario può essere pensato come una forma di inside debt (informazioni interne e riservate) al
quale si contrappone l’outside debt (emissione di titoli di debito sul mercato e informazioni
pubbliche). Dal momento che quest’ultimo comporta costi fissi elevati a causa del rilascio, da parte
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dell’impresa emittente, di informazioni dirette a una moltitudine di potenziali investitori, il ricorso
al credito bancario può risultare conveniente, se non una scelta obbligata, per i prenditori più
«problematici» dal punto di vista informativo. Anche le altre imprese sono però disponibili a
pagare sui prestiti bancari tassi d’interesse superiori a quelli delle altre forme di indebitamento: ciò
accade in quanto la banca, attraverso la sua attività di monitoring , favorisce in ogni caso la
diminuzione dei costi di agenzia del debito. Riguardo invece alla seconda questione, Fama sposa la
tesi del vantaggio relativo, sostenendo che solo interazioni ripetute tra banche e clienti consentono
di acquisire una superiore capacità di valutazione del merito creditizio e la disponibilità di
informazioni riservate sul conto dei clienti stessi11.
Nel rapporto banca-impresa, normalmente, la banca è la parte meno informata in quanto
solo l’imprenditore è in grado di valutare al meglio la «bontà» dei suoi progetti di investimento:
questa circostanza genera un vantaggio informativo a suo favore, particolarmente pronunciato nel
caso delle Pmi in quanto soggette a obblighi di natura informativa inferiori rispetto alle grandi
imprese. Tra le fonti di finanziamento delle imprese, soprattutto delle Pmi, emerge una preferenza
per il capitale di debito, con una netta prevalenza dell’indebitamento bancario. La spiegazione di
tale prevalenza è semplice: al crescere dell’opacità informativa crescono i costi per i finanziatori, sia
nella fase di valutazione ex ante del progetto da finanziare (costi di screening ) sia nella fase di
controllo ex post dell’azione del soggetto finanziato (costi di monitoring ). I costi di screening derivano
in primo luogo dalla difficoltà di valutazione, da parte dei soggetti esterni, della redditività
dell’impresa finanziata nonché dalla possibilità che si sviluppino fenomeni di selezione avversa
durante il processo di trasmissione delle informazioni tra i vari soggetti12. Una volta selezionata
l’impresa da finanziare, gli investitori devono sopportare gli ulteriori costi del monitoring
dell’imprenditore, per verificare che la sua azione e l’impiego dei fondi ottenuti siano coerenti con
l’obiettivo dichiarato e non sorgano problemi di moral hazard (asimmetrie informative ex post)13.
Il primo filone di studi della moderna teoria dell’intermediazione finanziaria suggerisce che
qualora i benefici – in termini di maggiore informazione prodotta – eccedano i costi, sarà
conveniente ricorrere alla banca piuttosto che al mercato. La banca, infatti, sfrutta i benefici delle
economie di scala realizzate nello svolgimento delle operazioni di screening e di monitoring .
Il secondo filone, sul quale ci concentriamo nel prossimo paragrafo, ipotizza invece che
solo una relazione continua e ripetuta generi un bagaglio informativo esclusivo e duraturo: il
relationship lending sarebbe inoltre caratterizzato da un contratto implicito di lungo termine tra banca
e debitore, grazie al quale la prima, attraverso ripetute interazioni con l’impresa, accumula in via
confidenziale informazioni riservate che riducono le asimmetrie informative14 .
2.2 Il vantaggio «relativo» e lo sviluppo del relationship lending
La modellistica più recente, nell’ambito della moderna teoria dell’intermediazionefinanziaria, assume che siano la continuità e l’intensità del rapporto col debitore a determinare il
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vantaggio informativo sugli altri potenziali finanziatori: più recentemente l’attenzione degli studiosi
si è anche concentrata sulla natura delle informazioni disponibili a seconda della tipologia di
impresa da finanziare – hard (informazioni oggettive e quantificabili, solitamente di dominio
pubblico) e soft (informazioni qualitative, solitamente riservate) – e sulla loro rilevanza nelle diverse
«tecnologie di finanziamento», nonché sull’assetto organizzativo dell’intermediario più adatto a
sfruttare le informazioni disponibili15.
Nel relationship lending la concessione del credito ha alle spalle una relazione di clientela che
lega l’affidato alla banca tramite preesistenti contratti di prestito e/o di deposito. Inoltre, affinché si
possa parlare della fattispecie in discorso è necessario che la banca assuma informazioni «dirette» e
«riservate», che vadano oltre quelle di pubblico dominio; che le medesime informazioni possano
essere rinnovate ed arricchite durante lo svolgimento nel tempo del rapporto, non solo di
affidamento, ma sempre più spesso allargato ad altri servizi offerti dalla banca; infine, che il
patrimonio di informazioni così accumulato resti di esclusiva pertinenza della banca. Sotto il
profilo più strettamente gestionale, inoltre, una piena realizzazione di relazioni di credito richiede
anche un’adeguata struttura organizzativa della banca, tale da garantire sia la presenza di addetti
specificamente dedicati alla gestione del rapporto, sia di un sistema di controllo che consenta in via
immediata il continuo monitoraggio della relazione. Una tale struttura presuppone anche una più
precisa segmentazione della clientela con diversificazione di prodotti e, verosimilmente, anche
divisionalizzazione dei processi produttivi. Il «credito di relazione» è quindi un prodotto molto più
complesso di quanto si possa immaginare nei termini puramente definitori: si può giungere a
definire come «prestito di relazione» solo quello che consente alla banca di utilizzare tutte le abilità
professionali possedute al fine di migliorare il rendimento dei progetti dell’impresa affidata.
In realtà in letteratura manca ancora una definizione condivisa di relationship banking , prima
ancora che di relationship lending . Boot [2000], ad esempio, definisce il relationship banking come una
prestazione di servizi finanziari che soddisfa due condizioni:
1.
l’intermediario erogante effettua investimenti costosi per acquisire
informazioni riservate su ciascun cliente finanziato, le quali, spesso, divengono proprietà
esclusiva dell’intermediario stesso;
2.
la redditività degli investimenti «informativi» effettuati e l’opportunità di
ripeterli nel tempo vengono verificate attraverso interazioni multiple e ripetute , nel tempo o
nel numero di servizi utilizzati, con ciascun cliente.
La definizione di Boot si fonda quindi sulla produzione di informazione riservata, non
appropriabile da parte dei concorrenti e sulla molteplicità delle interazioni. Nel contesto dell’attività
di prestito le informazioni riservate vengono ottenute nelle fasi di screening e monitoring ; possono
essere sfruttate in ciascun contatto col cliente, approfittando dell’opportunità di riutilizzare dette
informazioni nella misura in cui il loro valore conoscitivo rimanga intatto nel tempo [Chan,
Greenbaum e Thakor 1986]. Per contro, si può affrontare la tematica nell’ottica di relationship finance
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anziché di relationship lending [Berger 1999]; questo tipo di intermediazione è presente quando sono
soddisfatte le seguenti condizioni:
1.
il prestatore di fondi raccoglie informazioni che vanno al di là di quelle
relativamente più «trasparenti», costituite dai bilanci aziendali, dal valore delle garanzie
eventualmente prestate e dalle altre informazioni pubblicamente disponibili;
2.
l’intemediario ottiene tali informazioni mediante un contatto continuo
con l’impresa, i proprietari, i clienti, la comunità locale e, generalmente, attraverso la
prestazione di un pacchetto di servizi (di pagamento, di investimento, di finanziamento)
piuttosto che di un singolo servizio finanziario;
3. l’informazione ottenuta è di natura riservata e confidenziale e costituisce
la base per successive decisioni del finanziatore.
Questo approccio induce tuttavia a considerare le seguenti circostanze:
−
confinare la capacità di fare «finanza di relazione» alle sole banche di
deposito è una semplificazione, poiché le tre condizioni sopra esposte ricorrono anche
nell’attività di prestito effettuata da altri intermediari finanziari (si pensi alle finance companies
all’investment banking ed al private equity);
−
la «finanza di relazione» non comprende solo il credito inteso in senso
lato, ma un pacchetto di servizi: di finanziamento, di pagamento e di investimento. In altri
termini, non solo la durata nel tempo ma anche la gamma dei servizi utilizzati dal cliente
determina la capacità della banca di acquisire un vantaggio competitivo nei confronti degli
altri intermediari finanziari.
Al relationship banking si contrappone il transaction-oriented banking , che si concentra i) su una
singola operazione con un cliente o ii) su una molteplicità di identiche operazioni con una
moltitudine di clienti. Nel contesto dell’attività di prestito il transaction lending viene visto come arm’s
lenght financing , cioè come rapporto basato su singole, pure e semplici operazioni di finanziamento
non destinate ad avvicinare banca e cliente, vuoi perché occasionali, vuoi perché non idonee, per
caratteristiche oggettive o per volontà dei contraenti, ad aprire la sfera di attività del cliente alla
banca. Numerosi studi teorici hanno rilevato la superiorità della finanza di relazione rispetto a
quella transaction-based , limitata cioè a singole operazioni la cui valutazione sotto il profilo rischio-
rendimento è fondata prevalentemente su dati contabili e di dominio pubblico ( hard information ).
Nel relationship lending è possibile evidenziare anche il ricorso alla discrezionalità o flessibilità ,
intesa come possibilità per la banca, nell’ambito di un contratto di prestito a medio-lungo termine,
non solo di migliorare ma anche di inasprire le condizioni praticate (in particolare il tasso di
interesse)16. Se l’informazione di tipo soft prodotta nell’attività di monitoring è importante nel
governo della relazione di credito, la discrezionalità, consentendo di adeguare le condizioni del
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credito a nuove informazioni per loro natura difficilmente verificabili, induce scelte più efficienti
da parte delle imprese dei progetti di investimento da realizzare. La superiorità della discrezionalità
rispetto alle regole, dipende fortemente dalla qualità dell’azione di monitoring e dal grado di
concorrenza nel mercato dei prestiti: se la qualità del monitoring è bassa e/o la concorrenza
insufficiente, sia i contratti di prestito «privi di discrezionalità» sia i contratti di mercato – cioè gli
strumenti finanziari – dominano i contratti «con discrezionalità». Questi ultimi possono rivelarsi
ottimali sia per le imprese di bassa che di elevata qualità favorendo, in presenza di un sufficiente
livello di concorrenza (basso rischio di cattura), un miglioramento dell’efficienza allocativa
complessiva. Per le imprese di qualità intermedia, invece, il ricorso ai contratti di mercato domina
quelli bancari. I risultati ottenuti fanno quindi ritenere che vi siano spazi per il relationship lending
anche nel finanziamento delle imprese «migliori» ogni volta che l’informazione di tipo soft è
importante nel governo della relazione di credito; essi dimostrano più in generale che il relationship
lending ha effetti positivi sul valore delle imprese e che, nonostante la crescente concorrenza, il
credito di relazione può risultare la forma di finanziamento più indicata.
La finanza di relazione presenta tuttavia non solo benefici per banche e imprese, ma anche
rischi, riconducibili al problema dell’hold-up o «cattura del debitore» e del soft-budget constraint , che
equivale, all’opposto, alla «cattura del creditore».
2.2.1 Il fenomeno dell’hold-up o cattura del debitore
In un sistema bank-based , la banca tende a far pesare il proprio ruolo sulle decisioni delle
imprese, favorendo l’instaurarsi di stretti legami bilaterali i quali aiutano a superare i problemi legati
alle asimmetrie informative e consentono di conseguire un guadagno in termini di efficienza
allocativa. Stante l’onerosità del processo di produzione delle informazioni (costi di screening e di
monitoring ), vi sono economie di scala e di produzione congiunta che determinano una tendenza al
monopolio naturale nella fornitura di credito a un particolare soggetto, creando in questo modo le
condizioni sia per condividere con l’impresa i benefici della relazione, mediante una riduzione dei
tassi di interesse [Diamond 1991; Boot e Thakor 1994], sia per l’estrazione di rendite mediantel’applicazione di tassi attivi più elevati [Greenbaum et al. 1989; Sharpe 1990; Rajan 1992]. Se, da un
lato, l’esclusività della relazione con una sola banca crea i presupposti per l’offerta di un servizio
assicurativo implicito – la banca è cioè pronta a fornire linee di credito di emergenza quando
l’impresa si trovi ad affrontare temporanee crisi di liquidità o a isolarla da improvvisi rialzi
generalizzati dei tassi di interessi ( interest rate smoothing , Berlin e Mester 1999) – dall’altro, espone
l’impresa al rischio di vedersi espropriata di parte dei suoi profitti: il rischio appunto di hold-up, che
può essere attenuato attraverso il multiaffidamento [von Thadden 1992; 1995; Thakor 1996] e/o
attraverso la condivisione delle informazioni con le altre banche.
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Con riferimento al multiaffidamento von Thadden [1995] ha dimostrato che una relazione
contemporanea con due banche basta per stabilire una competizione sufficiente a contenere il
rischio di aumento ex post del costo del credito. Egli ha dimostrato, inoltre, che una soluzione più
efficiente del multiaffidamento al problema dell’hold-up è rappresentata da una linea di credito a
lungo termine, a condizioni predefinite per l’impresa qualora la banca decida di mantenere in
essere il rapporto (la banca ha infatti piena e incondizionata facoltà di revoca). Nonostante le
prescrizioni della teoria, l’evidenza empirica indica che il ricorso al multiaffidamento è largamente
praticato, anche dalle imprese più problematiche dal punto di vista informativo (Pmi). Pelliccioni e
Torluccio [2006] hanno evidenziato per l’Italia un crescente ricorso al multiaffidamento da parte
delle imprese più piccole e di quelle con un leverage più elevato; hanno inoltre verificato una
rilevante contrazione della quota di credito di pertinenza della main bank. Le Pmi, inoltre, non
fanno ricorso esclusivamente al credito di relazione, ma preferiscono utilizzare un mix di forme
tecniche (sia transaction che relationship lending ), riducendo presumibilmente i benefici di tale forma di
credito. Rispetto a questo comportamento Elsas, Heinemann e Tyrell [2004] hanno dimostrato che
le imprese meno redditizie o a basso valore di liquidazione dovrebbero prediligere il credito di
relazione mentre quelle più redditizie o a elevato valore di liquidazione il multiaffidamento.
Con riferimento alla condivisione delle informazioni, se le banche godono di un
monopolio informativo, le imprese finanziate non hanno incentivo a investire nel perseguire
progetti di alta qualità, perché temono che il rendimento di tali progetti venga decurtato dalla
banca finanziatrice mediante l’applicazione di tassi di interesse troppo elevati. La banca potrebbe
quindi aver incentivo a condividere le sue informazioni con le altre banche in quanto tale
condivisione, se da un lato ne riduce i profitti futuri, dall’altro garantisce che l’imprenditore investa
in progetti ad alto rendimento. Il trade-off tra i due effetti determina la scelta delle banche di
condividere o meno l’informazione con le altre banche [Padilla e Pagano 1997]17.
L’estrazione di rendite informative potrebbe peraltro essere il risultato, come nel modello
di Petersen e Rajan [1995], di un connubio virtuoso tra potere di mercato, relationship lending e
condizioni del credito: il maggiore potere di mercato esercitato da un intermediario può indurre
maggiori investimenti nell’acquisizione di una relazione di clientela di lungo periodo, che a sua
volta genera rendite informative e una maggiore offerta di credito. All’inizio della relazione, in un
mercato del credito concentrato, le banche tendono a praticare tassi di interesse più bassi rispetto
alla qualità media del cliente affidato: una volta consolidata la relazione bancaria e accertata la
buona qualità dell’affidato, la banca tenderebbe, invece, a praticare tassi di interesse più elevati.
L’analisi dinamica delle condizioni praticate rispetto alla qualità media dell’affidato risulta efficiente
in quanto riduce il razionamento del credito. In particolare, il modello prevede che all’aumentare
del grado di concentrazione del mercato i) aumenta il numero di imprese finanziate; ii) diminuisce
la qualità media delle imprese finanziate e il costo del credito; iii) il costo del credito si riduce più
lentamente all’aumentare della qualità dell’impresa finanziata.
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2.2.2 Il grado di concentrazione del mercato e la concorrenza
Un aspetto di particolare interesse relativo all’evoluzione del relationship lending è costituito
dall’impatto della crescente concorrenza. Si è portati a pensare che la crescita della concorrenza
limiti gli spazi del credito di relazione: per le imprese, infatti, diventa più facile cambiare fonte di
finanziamento passando da una banca all’altra o dai prestiti bancari alla raccolta diretta sui mercati
aperti; per le banche, invece, diventa più difficile trattenere i clienti primari che hanno dato prova
di solvibilità e di correttezza senza ridurre i tassi loro praticati, con conseguenze negative sulla
redditività della relazione. A questo proposito Boot e Thakor [2000] hanno evidenziato come una
crescente concorrenza nel mercato dei prestiti possa spingere le banche ad accrescere piuttosto che
ridurre il relationship lending . Nel credito di relazione il beneficio per il prenditore è funzione della
sector specialization della banca, cioè della sua capacità di valutare quella particolare tipologia dirichiedente, che la banca stessa acquisisce durante il rapporto. Con riferimento agli effetti della
concorrenza sul tipo di prestiti concessi, una maggiore competizione accresce il peso del credito di
relazione rispetto a quello del transaction lending : quest’ultimo sarebbe, però, più esposto alla
concorrenza dei mercati che non a quella interbancaria. Ancora con riferimento al relationship lending
al crescere della concorrenza, in particolare del mercato, il volume del credito di relazione prima
aumenta, poi flette. La relazione fra la quantità di relationship lending e la concorrenza non sarebbe
quindi monotona: oltre un certo livello di concorrenza il volume del credito di relazione passa dalla
crescita alla contrazione invertendo il trend della propria evoluzione18. Boot e Thakor [2000]trovano infine che per livelli intermedi di concorrenza i richiedenti di qualità elevata ricorrono
direttamente al mercato, quelli di qualità media si orientano al transaction lending , mentre quelli di
qualità bassa utilizzano il credito di relazione.
La conclusione in base alla quale le banche dovrebbero indirizzare il relationship lending verso
le imprese più problematiche dal punto di vista informativo (Pmi) e quello di transazione verso le
imprese più trasparenti (grandi imprese o Pmi con bilanci certificati) è piuttosto condivisa nella
letteratura teorica sul credito di relazione. E’ tuttavia ovvio che, in assenza di asimmetrie
informative, se cioè la banca potesse discriminare perfettamente tra cattivi e buoni prenditori,qualunque banca preferirebbe avere rapporti, transaction o relationship-oriented , unicamente con i
secondi. A questo proposito Basu e Banerjee [2006], proseguendo il lavoro di Boot and Thakor
[2000], dimostrano che, in un modello con banche e imprese rispettivamente di «buona» e «cattiva»
qualità, vi sono circostanze nelle quali, diversamente da quanto sostenuto generalmente in
letteratura, le banche «migliori» indirizzano il loro credito di relazione verso le imprese «migliori»
anziché verso quelle «peggiori» (più problematiche dal punto di vista informativo). Ciò accade
quando le imprese possono decidere il livello del loro impegno per la buona riuscita del progetto
finanziato ( costly effort ), le banche quello dell’investimento nella qualità del processo di valutazioneed entrambi i livelli sono contrattabili. Gli investimenti da parte di banche e imprese nella relazione
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di clientela hanno due peculiarità: sono «puramente cooperativi» e «strategicamente
complementari»19. In condizioni di perfetta informazione le imprese di buona qualità si impegnano
maggiormente di quelle di scarsa qualità per la buona riuscita dei loro investimenti. Inoltre esse
generano maggiori benefici per le banche «migliori», inducendo relazioni «simbiotiche» solo con
queste ultime: il maggior impegno da parte delle imprese «migliori» fa aumentare più che
proporzionalmente i profitti delle banche «migliori». La complementarità tra impegno delle
imprese e investimento delle banche viene meno quando si passa dal first al second best , cioè
dall’equilibrio di perfetta a quello di imperfetta informazione: in questo secondo caso
l’abbinamento prevalente è tra banche migliori - imprese peggiori, come prevalentemente
sostenuto nella letteratura sul credito di relazione.
Vesala [2005], infine, studia il relationship lending in un contesto nel quale il livello della
concorrenza nel mercato dei prestiti bancari è funzione del costo di cambiare banca ( switching costs ).
Nel suo modello il vantaggio informativo della banca di riferimento (banca interna) genera un
effetto cattura per l’impresa finanziata che è massimo quando il costo di cambiamento è
infinitamente piccolo: ciò accade in quanto un basso costo di cambiamento genera un problema di
selezione avversa che rende le banche concorrenti (esterne) estremamente riluttanti a fare offerte di
tasso aggressive ai clienti della banca interna. Questo effetto svanisce gradualmente al crescere
degli switching costs che riducono i profitti della banca di riferimento. Raggiunto un certo livello di
costi, tuttavia, i profitti della banca di riferimento ricominciano a crescere: in altri termini i benefici
del relationship lending per la banca sono una funzione non monotona dei costi di cambiamento. Ne
consegue che relazioni di clientela stabili dovrebbero essere più diffuse nelle strutture di mercato
«estreme», nelle quali cioè i costi di cambiamento della banca di riferimento sono o molto bassi
(concorrenza elevata) o molto elevati (bassa concorrenza).
2.2.3 Il fenomeno del soft budget constraint ovvero la cattura del creditore
Veniamo ora al problema del soft budget constraint , che discende dal rischio di lassismo, da
parte della banca, nel pretendere dal debitore il rispetto delle condizioni contrattuali e, più in
generale, un comportamento rispettoso delle sue ragioni di credito: detto lassismo è dovuto a uneccesso di confidenza e di familiarità con il debitore che, tuttavia, finisce col distorcere gli incentivi
ex ante che l’imprenditore ha nell’impegnarsi per il successo della sua impresa [Boot, 2000]. Il
rischio di lassismo da parte della banca viene quindi scontato nelle decisioni dell’imprenditore: egli
comprende, infatti, che la minaccia della banca di revocare i fidi, quando questa è eccessivamente
esposta nei suoi confronti, non è più credibile. La banca di riferimento, cioè, preferirà concedere
ulteriore credito all’impresa nella speranza di una sua ripresa, procrastinando così il fallimento della
stessa e le relative perdite. Una banca esterna terrebbe, invece, un atteggiamento opposto,
negherebbe cioè il finanziamento necessario per proseguire l’attività. L’imprenditore, sapendo
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questo, eccede nell’assunzione di rischi, cioè non si impegna adeguatamente per evitare il
fallimento dell’impresa [Bolton e Scharfstein 1996; Dewatripoint e Maskin 1995].
Il problema del soft-budget constraint può essere attenuato se i prestiti bancari sono senior o
privilegiati nel rimborso rispetto agli altri debiti dell’impresa e se la banca dispone di adeguate
garanzie.
2.3 Evidenza empirica e relationship lending in Italia
Come suggerito da Elsas [2005] le variabili dalle quali dipende il relationship lending sono
riconducibili a tre categorie: i) caratteristiche dell’impresa (dimensione, opacità informativa, accesso
al mercato obbligazionario o azionario, ecc.); ii) caratteristiche della banca (dimensione,
localizzazione, caratteristiche dell’attivo/passivo, ecc); iii) caratteristiche e condizioni di mercato
(regolamentazione, struttura del mercato, assetto competitivo).
La Tabella 1 sintetizza le principali variabili esplicative del relationship lending 20 e il relativo
segno atteso. Come indicato nella tabella, mentre per alcune variabili il segno atteso è
univocamente determinato coerentemente con quanto suggerito sia dalla letteratura teorica sia dalla
prassi operativa, per altre variabili permangono alcune incertezze.
Tab. 1. Variabili esplicative del relationship lending
TABELLA
Una prima ambiguità emerge con riferimento agli effetti prodotti dagli investimenti in R&ssulla numerosità dei rapporti bancari. Da un lato, il rischio che la banca si appropri di informazione
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riservata collegata alle attività in R&s crea le condizioni per un monopolio informativo
aumentando il rischio di hold-up ovvero l’applicazione di tassi di interesse più elevati. Tale rischio
spingerebbe le imprese a diversificare i loro finanziamenti su più banche ricorrendo al
multiaffidamento [Boot 2000; Detragiache et. al. 2000]. Dall’altro lato, essendo la spesa in R&s
collegata ad investimenti intangibili e di difficile valutazione da parte degli outsider, essa costituisce
una fonte di opacità informativa che può essere ridotta attraverso il monoaffidamento [Ongena e
Smith 2000; Elsas 2005]. Inoltre, il rischio di information disclosure a favore delle imprese concorrenti
spinge le imprese fortemente orientate all’innovazione a preferire una relazione bancaria esclusiva e
monoaffidataria [Yosha 1995; Bhattacharya e Chiesa 1995]. Con riferimento all’Italia l’evidenza
empirica è controversa.
Da un lato Detragiache et al. [2000] rilevano che gli investimenti in R&s influenzano
negativamente il relationship lending : in un modello in cui la banca principale potrebbe non essere in
grado di rifinanziare un progetto di investimento a causa di problemi di liquidità interni, l’impresa
si troverebbe costretta a rifinanziarsi presso altre banche. Queste ultime, tuttavia, in presenza di
asimmetrie informative, non conoscendo la qualità del progetto già avviato potrebbero decidere di
non finanziarlo decretandone il fallimento. In queste circostanze, il multiaffidamento potrebbe
ridurre tale rischio. Questo risultato è, ovviamente, tanto più vero quanto maggiore è l’opacità
informativa del progetto finanziato e quindi particolarmente credibile nel caso di imprese che
investono in attività intangibili come la R&s.
Dall’altro lato Pelliccioni e Torluccio [2006] trovano una relazione negativa tra attività in
R&s e numero di relazioni bancarie: l’attività di R&s rafforza il relationship lending evidenziando
come le imprese più innovative tendono, coerentemente con quanto dimostrato da Bhattacharya e
Chiesa [1995], a non disseminare il loro patrimonio informativo, preferendo relazionarsi con un
numero limitato di banche.
Un’ulteriore forma di incertezza è collegata al grado di concentrazione del mercato locale:
in uno studio sul mercato italiano Guelpa e Tirri [2006] mostrano che il relationship lending riduce la
probabilità di razionamento e che, ceteris paribus , la stessa è più bassa in mercati del credito
concentrati. L’evidenza empirica è coerente con l’ipotesi che il relationship lending produca vantaggi
maggiori per le imprese localizzate in mercati del credito concentrati piuttosto che competitivi 21.
Questi autori analizzano tre ipotesi:
-
il relationship lending riduce la probabilità di razionamento;
- la probabilità di razionamento diminuisce all’aumentare del potere di mercato della
banca a livello locale;
-
il relationhip lending riduce la probabilità di razionamento in misura maggiore in un
mercato concentrato rispetto ad un mercato concorrenziale.
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L’evidenza empirica prodotta con riferimento al caso italiano è coerente con tutte e tre le
ipotesi. In particolare, a parità di altre condizioni le imprese caratterizzate da forti relazioni di
clientela – sia perché prendono a prestito da un basso numero di banche sia perché la distribuzione
del debito è molto concentrata – risentono di minori problemi di razionamento. Coerentemente
con quanto osservato da Petersen e Rajan [1995], anche nel caso italiano all’aumentare del potere
di mercato delle banche si riduce la probabilità di razionamento delle imprese. Infine, all’aumentare
del numero di relazioni bancarie aumenta la probabilità di razionamento ma questo risultato è
tanto più accentuato quanto minore è il grado di concentrazione del mercato. Una possibile
spiegazione di questi risultati è da ricondurre, secondo Guelpa e Tirri, al fatto che all’aumentare del
numero di banche finanziatrici di un’impresa, in un mercato fortemente competitivo, diminuisce il
commitment della banca verso l’impresa debitrice a causa di un problema di free-riding tra i
finanziatori, aumentando così la probabilità di razionamento22. Emerge inoltre, che il relationhip
lending sembra produrre più vantaggi – sotto forma di maggiore credito ottenuto – per le imprese
localizzate in mercati bancari più concentrati piuttosto che in mercati più concorrenziali.
Altri studi, focalizzando l’attenzione sul processo di consolidamento in Italia negli anni ’90,
trovano che non vi è effettivamente stato un peggioramento delle condizioni contrattuali praticate
alle Pmi in termini sia di quantità di credito concesso [Bonaccorsi di Patti e Gobbi 2001;
Bonaccorsi di Patti et al. 2005] sia di tassi di interesse praticati [Focarelli e Panetta 2003; Panetta
2004].
Concentrandosi sugli effetti prodotti dalle operazioni di concentrazione bancaria sulla
disponibilità di credito, Bonaccorsi di Patti e Gobbi [2001] mostrano che il flusso di M&a che ha
investito il sistema bancario italiano tra il 1990 e 1998 non ha causato una generalizzata riduzione
dei finanziamenti alle Pmi23. Lo studio si concentra sugli effetti generati da tre variazioni strutturali
del sistema bancario italiano: fusioni, acquisizioni e nuovi ingressi di banche nel mercato. In
seguito alle fusioni si è osservata una migliore capacità di valutazione della clientela che ha
consentito di razionare il credito ai prenditori di cattiva qualità. In seguito alle acquisizioni è
possibile osservare, a livello di mercato locale, un aumento dell’offerta di credito a tutti i segmenti
di clientela, con una corrispondente riduzione dei crediti in sofferenza. Invece, l’ingresso di nuove
banche mostra un generalizzato effetto negativo sul credito nei mercati locali, attribuibile, almeno
in parte, ad un’ipotesi di fuga verso la qualità in base alla quale la ricerca di attività meno rischiose
comporterebbe una riduzione di tutti i tipi di prestiti. Ciò risulterebbe peraltro coerente anche con
la riduzione dell’incidenza delle sofferenze che si registra dal secondo anno dopo l’ingresso. Infine,
lo studio analizza gli effetti delle variabili relative alla struttura. I risultati mostrano che il grado di
concentrazione del mercato è correlato positivamente con l’ammontare del credito concesso alle
Pmi – coerentemente con quanto osservato da Guelpa e Tirri [2006] – ma anche ad un
peggioramento della qualità del credito.
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Bonaccorsi et al . [2005]) osservano che sono state le grandi banche a registrare un
decremento nelle quote di mercato dei prestiti a vantaggio delle piccole banche in tutte le aree del
paese ed in particolare per gli affidamenti nei confronti delle Pmi. La loro analisi conferma che il
forte differenziale di crescita del credito a favore delle banche di piccole dimensioni è indipendente
dalla specializzazione settoriale e territoriale. Le banche piccole non hanno, peraltro, adottato
politiche di prezzo particolarmente aggressive, anche se, in termini relativi, la qualità dei loro
portafogli ha registrato un miglioramento più contenuto rispetto alle banche grandi. Infine, le
operazioni di aggregazione producono sul differenziale di crescita dei crediti, segni alterni a
seconda delle modalità con cui sono state realizzate: le fusioni producono un effetto negativo e
statisticamente significativo; il contrario si verifica nel caso delle acquisizioni. Infine, il processo di
riorganizzazione aziendale delle banche più grandi ha contribuito in misura rilevante a differenziare
i tassi di crescita tra le diverse categorie di intermediari, per l’ovvia complessità legata
all’unificazione dei criteri e delle politiche dei fidi.
L’indicazione più generale che si può trarre dagli studi condotti sull’Italia è che nelle aree
interessate da aggregazioni bancarie, la crescita dei prestiti diviene più lenta sia per le imprese di
grandi dimensioni sia per le Pmi. Il rallentamento è, tuttavia, temporaneo e si concentra sui prestiti
di cattiva qualità. L’evidenza empirica mostra, infatti, che la contrazione non riguarda i crediti di
buona qualità. La maggiore disponibilità di credito che emerge a partire dai primi anni ’90 sembra
riguardare anche le Pmi ed è garantita in misura rilevante dalle banche più piccole che operano
prevalentemente in mercati locali ed instaurano con la clientela relazioni di lungo termine.
Veniamo adesso agli effetti del relationship lending sulle condizioni contrattuali in termini di
quantità di credito concesso, tasso di interesse praticato e collateral richiesti. Con riferimento
all’Italia l’evidenza empirica è controversa e non esaustiva. Angelini et al . [1998] mostrano che nel
periodo 1994-95 il relationship lending tra Bcc e Pmi socie delle Bcc produce un effetto positivo sia
in termini di maggiore credito concesso sia in termini di tassi di interesse più vantaggiosi. Tuttavia,
nel caso più generale in cui si considerino le stesse imprese clienti di banche diverse dalle Bcc,
questo risultato è semplicemente ribaltato. All’aumentare della durata del relationship lending le
imprese tendono a pagare tassi di interesse più elevati; lo stesso vale nel caso delle Bcc nei
confronti delle Pmi non socie. Inoltre, solo le imprese socie delle Bcc godono di un facile accesso
al credito. Questo risultato non vale per le stesse imprese clienti di altre banche e per le imprese
non-socie clienti delle Bcc. Ciò è, tuttavia, da ricondurre, secondo gli autori, alla specificità
giuridica delle Bcc piuttosto che ai benefici del relatioship lending .
In un lavoro successivo, D’Auria et al. [1999] analizzano gli effetti del relationship lending sui
tassi di interesse e trovano, diversamente da Angelini et al. [1998], che il relationship lending produce
un generalizzato effetto positivo in termini di tassi di interesse più vantaggiosi. Forestieri e Tirri
[2003], invece, trovano evidenza empirica a favore dell’ipotesi di hold-up: i costi associati al
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relationship lending sono superiori ai benefici. In particolare le condizioni di affidamento praticate –
tassi di interesse e garanzie richieste – peggiorano all’aumentare del grado di concentrazione del
mercato mentre migliorano all’aumentare del numero di relazioni bancarie.
Un riepilogo dell’evidenza empirica sul relationship lending discussa in questo paragrafo con
riferimento all’Italia è riportato nella Tabella 2 .
Le difficoltà di misurazione delle caratteristiche della relazione di clientela e la scarsa
disponibilità dei dati relativi alle Pmi, che più dovrebbero beneficiare del relationship lending , lasciano
ancora aperto il dibattito sul reale valore del rapporto banca-impresa nel nostro Paese.
L’eterogeneità dei risultati empirici disponibili non consente, infatti, di pervenire a conclusioni
definitive sugli effetti che un’intensa relazione di clientela produce sulle condizioni contrattuali del
prestito. Il ruolo del relationship lending è, peraltro, fortemente influenzato dalle caratteristiche
istituzionali, di sviluppo e funzionamento dei mercati e dalla regolamentazione in senso lato.
Inoltre, problemi legati al campionamento e all’utilizzo di modelli in forma ridotta generano
instabilità nei risultati; la relazione stimata è «complessa» e può modificarsi in base a numerose
circostanze (luogo, tempo, ecc.) per cui il «valore» del rapporto stimato può variare. In
conclusione, i risultati sono per lo più instabili e controversi tali per cui non è possibile dare delle
risposte certe e definitive sul valore del rapporto in discorso, il quale, tuttavia, rimane
intuitivamente molto elevato.
Volendo prescindere dalle analisi econometriche e soffermandosi soltanto sui tratti
caratteristici salienti del rapporto banca-impresa nel nostro recente passato, è possibile individuare
tre distinti periodi24:
-
il primo, che poggia sulla specializzazione funzionale degli intermediari,
culmina con la più vasta estensione del multiaffidamento ed arriva fino all’introduzione
della nuova legge bancaria;
- il secondo, che prende l’avvio da questa e, incentrandosi sul modello
della banca universale, vede un’intensificazione del relationship lending e la necessità di
integrare l’attività creditizia con quella mobiliare della banca, arricchendo con ciò il
pacchetto dei servizi destinati alle imprese;
- il terzo, appena avviato, che esalta il peso dei rischi collegati all’attività
creditizia (per estensione delle metodologie sviluppate con riferimento ai rischi di mercato
propri dell’attività mobiliare) ed introduce la necessità di procedere alla misurazione ed alla
«gestione» degli stessi, con conseguente arricchimento (ma anche maggiore complessità)
nella qualità del rapporto di finanziamento.
Al primo periodo corrisponde la cultura bancaria più tradizionale che, sul piano
organizzativo si è tradotta in un assetto funzionale improntato ad un centralismo di tipo,
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sostanzialmente, burocratico [Baravelli 1998]. La capacità di «fare i fidi» permea ed è al centro dei
valori che guidano il comportamento dei dipendenti bancari e del modo in cui essi interpretano
l’atteggiamento aziendale nei confronti loro e del mercato; inoltre, è molto sentito il senso della
gerarchia che porta a considerare più importanti e gratificanti le funzioni svolte presso la sede
centrale piuttosto che in periferia [Munari 1985].
In questo periodo il rapporto banca-impresa è connotato da una sostanziale debolezza che
trova le sue origini in cause interne ed esterne alla banca, e che, assieme al mancato sviluppo del
mercato mobiliare, determina una sorta di circolo vizioso il quale ritarda lo sviluppo del nostro
sistema finanziario25 ed impoverisce la qualità dei servizi rivolti all’impresa.
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Tab. 2.L’evidenza empirica sul relationship lending in Italia
TABELLA
Note: 1Segno della stima dell’effetto del relationship lending su credito, tassi e collateral . Per non appesantire la presentastatisticamente significativi. 2Centrale dei Rischi; 3Centrale dei Bilanci. Fonte : nostre elabor
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La debolezza del rapporto è anche frutto della frammentazione delle relazioni [Pelliccioni e
Torluccio 2006] e riflette una concezione del credito che si basa su di una logica assicurativa
(peso determinante delle garanzie e ripartizione degli affidamenti), certamente non impostato
sulla permanenza nel tempo della relazione e sostanzialmente «monoprodotto» ( transaction
lending ).
Notevoli sono però i progressi che nel periodo si realizzano relativamente ai criteri
utilizzati nella valutazione del merito di credito delle imprese richiedenti, già chiaramente
individuati dalla dottrina26: si diffonde, infatti, l’uso di strumenti tipici dell’analisi finanziaria e
seppur timidamente, nel corso degli anni ottanta, prende piede la necessità di affiancare alle
analisi quantitative, fondate sui dati dei bilanci consuntivi, sia quelle sui dati prospettici
(indicatori della strategia dell’impresa), sia le valutazioni relative agli andamenti ed alle previsioni
sul settore di appartenenza.
Le analisi sul mercato dei prestiti del periodo rilevano che in seguito alla caduta dei
vincoli amministrativi restrittivi della concorrenza (divieto di costituzione di nuove banche,
politica dei piani sportelli quadriennali, vincoli sulla competenza territoriale delle aziende di
credito, restrizioni valutarie, massimali creditizi e vincoli di portafoglio) si è verificata una
redistribuzione delle quote di mercato fra le banche la quale ha visto per un terzo del nostro
sistema bancario un incremento della quota accompagnato da un calo della rischiosità; un altro
terzo ha perso quote di mercato preservando però la qualità dell’attivo; l’ultimo terzo infine, ha
modificato la propria partecipazione al mercato (in positivo o in negativo) peggiorando però la
qualità del portafoglio.
L’aumento della concorrenza sul mercato dei prestiti, che coincide anche col progressivo
sovrapporsi delle zone di competenza territoriale delle banche e con strategie sempre più
aggressive di ampliamento dei portafogli, culminate, come già ricordato con l’esplosione dei fidi
multipli; l’accelerazione nei processi di concentrazione, con la necessità di rivedere le esposizioni
creditizie di soggetti economici divenuti spesso, nel frattempo, unici, caratterizzano, sotto il
profilo dei prestiti, il secondo periodo. Questo è connotato, inoltre, dall’ampliamento delle
opportunità operative in seguito all’entrata in vigore della nuova legge bancaria che ha introdotto
il nuovo modello di intermediazione creditizia noto come «banca universale».
Nella sostanza, alla banca ordinaria si apre la possibilità di procedere alla copertura dei
fabbisogni finanziari delle imprese giudicate meritevoli anche con la sottoscrizione di capitale di
rischio: quel che appare chiaro in questo periodo è l’indifferibile necessità di ampliare il ventaglio
dei servizi destinati all’impresa e di procedere ad una maggiore integrazione fra attività creditizia
ed attività mobiliare della singola banca.
Sul piano della gestione degli affidamenti ciò si traduce in una naturale spinta verso
l’approfondimento delle relazioni di credito: bisogna cioè puntare, da parte della banca,
all’instaurarsi di relazioni sempre più durature ed esclusive (o tendenzialmente tali), volte a
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coprire tutto lo spettro delle esigenze finanziarie dell’impresa e sempre più atte a valorizzare la
mole di informazioni che da esse scaturisce; sul piano organizzativo invece si determina la
necessità di rivedere l’assetto funzionale e ci si indirizza verso il cosiddetto modello divisionale
[Baravelli 1998; Caruso 2006].
In seguito a ciò, si rende necessario ripensare le politiche di diversificazione e di
segmentazione della clientela, tradizionalmente improntate alla distinzione per classi
dimensionali o per settori di appartenenza, al fine di aumentare il grado di aderenza nella
soddisfazione dei fabbisogni; si rende inoltre necessario ripensare anche le politiche distributive e
di contatto con le imprese: al modello tradizionale incentrato sul ruolo del direttore d’agenzia
bisogna sostituire quello dell’addetto specializzato nel ruolo di consulente-gestore, che sia in
grado di interpretare le reali esigenze dell’impresa cliente ed indirizzare l’intervento della banca
rivolgendosi agli specialisti interni più idonei nei differenti servizi offerti (crediti speciali, corporate
banking , leasing e factoring , venture capital , ecc.) [Previati 1997; Pelliccioni 2006; Torluccio, 2006].
Per quel che riguarda le analisi di affidabilità, restano sostanzialmente immutati i pesi
assegnati ai diversi fattori esaminati nei processi di decisione, anche se si comincia ad intravedere
un iniziale distacco dalle logiche prettamente assicurative, incentrate sulle garanzie accessorie, per
dare maggiore spazio alle analisi di settore ed a quelle revisionali [De Laurentis 1998]. Fra gli
obiettivi della funzione fidi, si accresce il peso della capacità di selezione (lo screening efficace, per
evitare di aumentare il livello della rischiosità del portafoglio ed incorrere in perdite) e della
capacità di rinsaldare le relazioni di credito.
Il terzo ed ultimo periodo si è avviato con l’introduzione dei modelli di gestione del
rischio di credito, conseguenza dell’annuncio di una nuova disciplina dei coefficienti patrimoniali
basati, per quel che riguarda l’attività della concessione dei prestiti, sull’assegnazione di veri e
propri rating alle imprese affidate27.
L’avvento di una «nuova» metodologia di valutazione della capacità di credito, proprio
perché richiede analisi più ampie ed approfondite della situazione finanziaria, economica e
patrimoniale delle imprese affidate, porta con sé l’opportunità di realizzare interventi di gran
lunga più efficaci ed incisivi sull’economia di queste ultime. Sulla base di questa accresciuta
capacità di analisi e con l’aggiunta di una più ampia gamma di competenze e di servizi da offrire
alle imprese clienti, si dischiude per la banca la possibilità di realizzare concretamente un deciso
avanzamento del relationship lending , con grande beneficio di entrambi i contraenti, come avremo
modo di sottolineare nel paragrafo che segue.
3. Caratteri evolutivi del relationship lending e crescita delle imprese
Come abbiamo visto, le motivazioni che spingono la banca ad instaurare relazioni
creditizie durature sono molteplici:
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− attraverso un rapporto creditizio continuo e ricco di «movimentazione» si possono
trarre maggiori e migliori informazioni sull’impresa sovvenuta, ciò che consente di
superare al meglio le asimmetrie informative tipiche del mercato dei finanziamenti
ed i connessi rischi di selezione avversa e di azzardo morale;
−
le asimmetrie in discorso valgono in misura più accentuata per le imprese di minori
dimensioni che non hanno l’obbligo della divulgazione dell’informazione: il credito
di relazione si addice dunque particolarmente alle piccole e medie imprese, che già
trovano nella banca il loro interlocutore naturale nella soddisfazione dei loro
fabbisogni finanziari. Questa circostanza assume un rilievo particolare in quei
sistemi che, come il nostro, sono popolati nella quasi totalità da imprese di ridotte
dimensioni;
−
il costo per l’acquisizione e l’elaborazione delle informazioni si può stemperare su
di un periodo più lungo e ha modo di combinarsi meglio con il perseguimento di
più generali economie di scala e di produzione congiunta;
− la maggiore conoscenza, consentendo di classificare con più precisione il merito di
credito degli affidati, dovrebbe spingere la banca a finanziare le imprese meritevoli
senza razionare loro il credito e a un costo in linea con la loro minore rischiosità;
−
il livello di conoscenza dell’impresa non è funzione solo della «durata della
relazione», ma anche del «grado di articolazione» della stessa, cioè dell’ampiezza
della gamma di prodotti e servizi che la compongono. La fornitura contemporanea
di più prodotti e servizi accresce indubbiamente il flusso informativo a disposizione
della banca per quantità e qualità, rendendo più precisa la valutazione
dell’affidabilità del cliente: si determina presso la banca una sorta di « sector
specialization » che le consente di realizzare economie di scala nei processi di
elaborazione ed utilizzo delle informazioni, mentre all’impresa si dischiude la
possibilità di beneficiare di servizi a più elevato valore aggiunto.
Proprio sulla base di quest’ultima osservazione, la tabella che segue (Tabella 3) offre una
panoramica generale dei prodotti/servizi che possono completare l’offerta da parte delle banche
che intendano perseguire l’evoluzione verso il relationship banking 28. Sono dapprima individuati i
servizi che costituiscono il nucleo di quelli «tradizionali», per i quali si richiedono competenze
«di base» alle quali si affiancano quelle un po’ più sofisticate di credit risk management e di asset
management (area chiara – Tabella 3). L’ampliamento dei servizi alle imprese con le quali si è
instaurato un rapporto di tipo relazionale, riguarda in primo luogo l’opportunità di affiancare
nuovi strumenti di pagamento e di finanziamento, sfruttando le innovazioni tecnologiche o
regolamentari che si manifestano e/o di ammodernare le modalità di utilizzo e di comunicazione
con la banca (accesso multicanale, con privilegio del canale informatico).
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Riguarda poi l’opportunità di articolare sempre meglio la copertura dei fabbisogni finanziari
sfruttando tutto lo spettro delle operazioni possibili nell’ambito del credito a breve, a medio e
lungo termine, del ricorso al leasing ed al factoring, del credito agevolato e/o garantito dai Confidi,
dell’hot money , di emissioni di commercial paper , dei prestiti in pool e dell’emissione di bond di
distretto. Le competenze richieste per i servizi in parola, oltre quelle di base, riguardano quelle
per lo scrutinio del credito ( lending ) e per le gestioni patrimoniali.
Tab. 3. Prodotti servizi e competenze per il relationship banking
TABELLA
Per quanto riguarda i servizi connessi all’internazionalizzazione, anch’essi sempre più richiesti al
fine di accompagnare le imprese nei loro processi di espansione produttiva e/o commerciale
all’estero, è appena il caso di osservare che, normalmente, le banche sono in grado di offrire
servizi «semplici», limitati per lo più a quelli di pagamento e di finanziamento
all’importazione/esportazione. Non dispongono invece delle strutture o dei contatti
propriamente utili a questo fine, ovvero: assistenza per l’apertura di strutture produttive o
commerciali, avvio di collaborazioni con imprese estere, ecc. Nell’impossibilità di improvvisare
simulacri di servizi minimamente efficienti, la soluzione migliore risiede nella stipula di accordi di
collaborazione con operatori specializzati nelle diverse aree geografiche di interesse specifico.
Appena al di fuori dell’area tradizionale si apre l’offerta dei servizi che possiamo definire corporate
banking e che riguarda in primo luogo quella dei cosiddetti servizi di hedging , ovvero il ricorso ai
derivati per la copertura dei rischi di cambio, di tasso o di variazione dei prezzi delle materie
prime.
La domanda di questa tipologia di servizi da parte delle imprese29, per quanto frenata dalle non
brillanti esperienze vissute in tempi recenti nel nostro sistema, deve essere, a nostro avviso,
stimolata da parte delle banche, nella consapevolezza che si tratta di strumenti che consentono di
ridurre i gradi di incertezza dei flussi di incassi e pagamenti (e connessi costi/ricavi) e che non
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sono strumenti di speculazione. A questa consapevolezza deve necessariamente affiancarsi quella
di essere in grado di offrire un servizio efficace (in termini di desk operanti e back-office ) e
soprattutto di poter mettere costantemente l’utilizzatore nelle condizioni di assumere, a sua
volta, scelte realmente consapevoli. Ciò implica che la banca ha tutto l’interesse ad accertare che
presso l’impresa sussista la capacità di valutare compiutamente i rischi assunti; in caso contrario
si rischia di esporre l’impresa a perdite impreviste e di dare l’avvio ad un contenzioso certamente
dannoso che può seriamente compromettere una relazione costruita nel tempo e la reputazione
della banca stessa.
Fra le operazioni di finanza mobiliare evidenziate nella tabella, vi sono innanzitutto il private equity
ed il venture capital : su questo fronte la banca deve attivarsi per diffondere la conoscenza di questi
modelli di finanziamento, che faticano a decollare nel nostro sistema, rispetto a quanto avviene
nel resto dell’Ue, e che pure sono vocati allo sviluppo di quelle iniziative di cui il nostro paese
avrebbe più bisogno, dal momento che riguardano nuove iniziative imprenditoriali in comparti
fortemente innovativi.
Gli altri servizi di finanza mobiliare citati sono quelli di «elezione tipica» per l’esercizio del
corporate banking e sono probabilmente anche quelli più necessari alla nostra struttura produttiva,
la quale necessita in via prioritaria di interventi sul livello dei capitali propri ( capitale di rischio ) e
conseguente grado di apertura della compagine sociale; necessita inoltre di interventi
sull’articolazione delle risorse di finanziamento e sulla più corretta combinazione fra le differenti
fonti, ai fini della minimizzazione del costo del capitale.
E’ appena il caso di ricordare che, mediamente, la nostra struttura produttiva di riferimento,
ovvero le Pmi con le quali si sono instaurati rapporti di tipo relazionale:
−
è caratterizzata da una endemica scarsità di capitale di rischio e per la
copertura dei fabbisogni finanziari utilizza l’autofinanziamento ed il prestito bancario,
principalmente a breve termine;
−
ha una struttura proprietaria fortemente accentrata nella figura
dell’imprenditore/fondatore dell’impresa, con controllo allargato, al massimo, alla cerchia
strettamente familiare;
−
ciò è al tempo stesso causa e conseguenza dell’esistenza di quelli che
in letteratura sono conosciuti come «benefici privati del controllo»;
−
ha, conseguentemente, una governance (nei termini di infrastrutture
legali e normative, tutela di azionisti e creditori, regole di trasparenza, standard contabili,
chiarezza e puntualità nella diffusione delle informazioni, ecc.) largamente «informale»,
caratterizzata da scarsità di regole codificate ed esplicite e di meccanismi di controllo esterno
vincolanti, a tutela dei finanziatori esterni30»
−
è storicamente contraria o, al massimo, «non interessata» all’accesso
alla quotazione di borsa;
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− presenta un’ampia diffusione delle configurazioni di «gruppi»,
soprattutto informali32, con partecipazioni incrociate fra le imprese del gruppo stesso; per
quanto in forma semplificata ed informale, questa circostanza implica l’accentramento
presso la capo gruppo della funzione finanziaria;
− presenta, infine, un’elevata commistione tra proprietà, controllo e
funzioni gestionali.
Anche a prescindere dalle caratteristiche della produzione tipica, spesso sbilanciata verso
comparti poco innovativi e fortemente esposta alla concorrenza dei PVS, questa struttura
produttiva, con gli squilibri finanziari evidenziati e le caratteristiche proprietarie e di governance
ricordate, non sembra più in grado di sostenere il livello di competizione che deriva dai progressi
della globalizzazione.
Per ritornare ad essere competitiva, l’impresa ha bisogno di porsi obiettivi di crescita e sviluppo,
il che implica spesso il ricorso ad operazioni di aggregazione con altre imprese; la crescita
dimensionale non è, evidentemente, un valore in sé, ma appare sempre più essere il presupposto
per poter realizzare innovazione, ricerca, internazionalizzazione, migliori relazioni con clienti e
fornitori32.
In un contesto di generale ristrutturazione/riconversione aziendale è certamente utile rivedere
anche la struttura finanziaria dell’impresa e, su questo terreno, la banca di riferimento, può e
deve fare molto.
I servizi citati in tabella rispondono proprio a queste necessità: la revisione ed il riequilibrio della
struttura finanziaria dell’impresa riguardano ad evidenza, in primo luogo l’approfondimento dei
servizi «tradizionali» (l’area chiara, per intenderci) attraverso lo sfruttamento di maggiori e più
ampie competenze (da quelle di base a quelle di advisory e consulting acquisite anche presso
specialisti esterni), con l’utilizzo di tutta la gamma delle operazioni, per tipologia e durata,
presenti; riguardano, in secondo luogo, l’accesso al mercato dei capitali attraverso la quotazione
(Ipo), l’emissione di azioni e di obbligazioni, così come il ricorso ad operazioni di finanza
straordinaria per M&a, Lbo ed Mbo; oltre a risolvere in modo più corretto determinate tipologie
di fabbisogni finanziari propri delle fasi di ristrutturazione o di semplice ampliamento aziendale,
le operazioni in discorso portano con sé un deciso avanzamento nella governance , almeno sotto il
profilo della «formalizzazione» di tutti gli elementi più sopra richiamati.
Non è questa la sede per sottolineare tutti i vantaggi che sono collegati all’ampliamento delle
fonti di finanziamento con l’apertura del canale di mercato. Riteniamo però che qualcosa debba
necessariamente cambiare dal momento che:
− il numero delle imprese industriali quotate in Italia risulta
particolarmente basso, sia in assoluto sia con riferimento al ranking di industrializzazione del
paese;
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− la dimensione media di una società quotata italiana risulta
particolarmente alta (3 mld contro 2,4 di Euronext, 1,8 di Deutsche Boerse e 1,1 di Londra),
segno che si accede alla Borsa in una fase del processo di crescita più avanzato che altrove;
−
anche sui segmenti di mercato destinati alle Pmi la dimensione media
delle imprese quotate risulta più elevata che altrove: sul Nuovo Mercato e su Expandi, nel
2003, si è registrato un valore medio di 243 e 531 mln, contro un valore di 66 al Nouveau
Marché di Euronext e 44 all’Alternative Investment Market di Londra33;
−
nel nostro sistema produttivo esiste un numero rilevante di imprese
potenzialmente quotabili (circa 1200)34;
−
sono circa 250 le imprese che hanno manifestato un concreto
interesse alla quotazione, dichiarandolo come preciso obiettivo strategico;
− rimane ancora rilevante la distanza rispetto agli altri paesi europei sul
fronte dell’emissione di corporate bond ;
Dopo la «bolla» della new economy e con la successione di alcuni scandali societari recenti,
l’interesse per l’apertura al mercato si è naturalmente affievolito; il clima stesso di attenzione nei
confronti della borsa si è modificato, come è dimostrato dalla crescita del delisting in tutti i
mercati principali.
La stessa struttura organizzativa delle nostre imprese ed in particolare le caratteristiche di
controllo proprietario e governance più sopra ricordate, non sono propriamente market friendly.
Fra i «vantaggi» della quotazione, pure chiaramente percepiti e le «resistenze» motivatecon i maggiori controlli esterni, la conseguente necessità di disclosure e relativa complessità
organizzativa, i costi diretti ed il «clima» post-bolla e gli scandali, prevalgono probabilmente le
seconde, per cui è forse prematuro parlare di interesse diffuso all’accesso al mercato dei capitali.
Non è tuttavia possibile accantonare definitivamente questa opportunità: per le imprese
che hanno scelto di crescere, l’accesso al mercato rientra a pieno titolo fra le opzioni di
finanziamento dello sviluppo e la banca che assiste l’impresa non può che tenerne conto e, nel
proprio interesse, spingere verso l’adozione di scelte razionali.
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